digitale
Da Google a Twitter, l’élite digitale ha preso il potere
Art. postato da C. quarta su nicofranca-news, 14\01\2014, h. 09.42.

Fonte:
www.libreidee
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Autore:
Giorgio Cattaneo
martedì 14 gennaio 2014  6.00

«Informazione, salute,
politica,
denaro, cultura, relazioni personali, tempo libero: nulla è più come prima». Oggi, infatti, è tutto 
on-line. Sono passati vent’anni da quando “Time Magazine”,
nel 1983, nominò “Machine of The Year” il personal computer. Da quel momento, con la “rivoluzione 
digitale”, costruttori di computer e geniali inventori
di software hanno cominciano a cambiarci la vita. Che dire poi dell’avvento di Internet: nel 1987 
erano connessi in rete 10.000 computer, ma nel 1993 comparve
Mosaic, il primo browser, e nel 1996 i computer connessi erano già 10 milioni; oggi sono 3 miliardi 
e a loro si aggiungono 3 miliardi di dispositivi mobili.
Qualcosa è cambiato, non c’è dubbio, e la “rivoluzione” si è arricchita di protagonisti e 
comprimari: alla coppia iniziale hardware-software, riassume
Glauco Benigni, si sono aggiunti i servizi di e-commerce e di e-banking, i motori di ricerca, i 
social network, i blog, i siti di informazione, le Tv online
e i loro antagonisti, hacker e pirati.

«C’è un pianeta parallelo ormai che vive e vegeta in un’altra dimensione, fatta di sterminate, 
inconcepibili sequenze di numeri che si spostano a velocità
impressionanti, si trasformano e appaiono sui nostri schermi quali testi, foto, immagini in 
movimento e influiscono su ogni attività contemporanea». La
“rivoluzione digitale” incede solenne, scrive Benigni nel suo blog in un post ripreso da 
“Megachip”. Il web «non perde tempo a condividere i valori e le
visioni del passato» e in pratica «non rispetta nessuno, neanche i governi e gli ultimi Stati 
rimasti sovrani». Tutto viene travolto dalle “digital power
élites” «costituite da 20enni, 30enni, solo raramente 40enni e 50enni che, giunti in parte dai 
garage e dalle cantine degli angoli più remoti del mondo
e in parte da prestigiose università, oggi siedono nei consigli di amministrazione di enormi 
“conglomerates” e da lì “shape the history” (danno forma alla
Storia del Futuro)».

Il 2013 si era aperto con l’annuncio da parte di Pay Pal, il maggior gestore di transazioni 
economiche in rete, del proprio sistema mobile: per l’e-trading,
un’accelerazione radicale, ovvero «la possibilità di spostare denaro con pochi click sul cellulare 
o sul tablet». In sintonia con questa tendenza, a febbraio
Twitter ha siglato l’accordo con l’American Express: da questa accoppiata – social network e 
gestori di carte di credito – possono scaturire «scenari da
fantaeconomia», osserva Benigni, dal momento che ormai «tre italiani su quattro comprano 
direttamente online», e nel 2016 il mercato italiano varrà 20
miliardi di euro (in
Europa
 ne vale già 311). Il 2013, continua Benigni, è l’anno in cui i vecchi protagonisti della scena, i 
Ginger e Fred dell’hardware-software, soffrono di più.
«Lord Microsoft accusa pesanti colpi al suo fatturato dovuti all’avvento dei nuovi sistemi 
operativi, primo fra tutti Android. E anche la vecchia lady
Apple, per la prima volta in 10 anni, nonostante la cavalcata selvaggia dei suoi I-Phone e I-Pad, 
vede un calo degli utili». Tablet e smartphone dilagano
dovunque: «Anche il sofferente mercato italiano, a maggio, registra un’impennata di vendite, 
nonostante la
crisi
». Il ruolo strategico dei social network condiziona motore di ricerca come “Yahoo!”, costretto a 
limitarsi al 15% delle ricerche mondiali. Come Google,
ha bisogno di possedere un suo social network, e quindi tenta di perfezionare una partnership con i 
francesi di Daily Motion. Offerta rigettata, ma “Yahoo!”
si consolerà presto comprando Tumbir, un social network con 108 milioni di blog, per 1,1 miliardi 
di dollari. E anche Daily Motion si consolerà, volgendo
la propria attenzione al Giappone.

Sul piano politico, intanto, si segnala l’altolà imposto a Mark Zuckerberg, patron di Facebook, 
costretto a pagare 62 milioni di dollari per risarcire broker
e investitori travolti dal crollo del titolo in Borsa. Stop anche alla lobby dell’enfant prodige, 
messa in piedi per “infiltrare” il Congresso. Messaggio:
ok al business, ma non alle scorribande politiche – a meno che non siano orchestrate 
dall’intelligence, che utilizza i social network per pilotare «piccole
e medie rivolte di piazza, colpi di Stato, rimozioni di primi ministri e presidenti ormai bolliti e 
non più graditi al Washington Consensus». La Cina,
intanto, stanca delle critiche sulla tutela dei
diritti
 umani (e del pressing di Google) annuncia che non chiederà più l’accesso agli Internet Protocol 
alle autorità
Usa,
che ne hanno fatto “cosa nostra”, ma si rivolgerà direttamente all’Agenzia delle Nazioni Unite di 
Ginevra, che è l’istituzione suprema preposta al rilascio.
«La decisione genera un grande imbarazzo diplomatico, ma tant’è: è solo uno degli atti di 
cyber-guerra fredda degli ultimi anni tra le due superpotenze».

Il colpo di grazia alla credibilità di Facebook è il caso Datagate, scoppiato a giugno: tutti i 
dati sensibili degli utenti sono a disposizione della Nsa.
I gestori del web sono in imbarazzo,  Zuckerberg licenzia 520 dipendenti della sua controllata 
Zynga e in Borsa perde il 20%, crollando ai minimi, salvo
poi recuperare utenti grazie all’uso dei dispositivi mobili. Per Benigni,la transizione dal Pc al 
laptop è un’altra “rivelazione” del 2013. Amazon fa sapere
che i primi 10 prodotti venduti a livello mondiale «sono tutti devices digitali». E pertanto il 
boss Jeff Bezos, uno che a 49 anni fornisce 225 milioni
di clienti e che in un giorno solo, secondo “Fortune”, riesce a guadagnare o a perdere anche 2 
miliardi di dollari, annuncia che vuole mettersi in concorrenza
con i grandi costruttori di tablet. E’ forte del successo del suo Kindle, che sta rivoluzionando 
tutta la tradizione di lettura libri, ma non basta. A
Seul quelli della Samsung non lo faranno passare. Comincia a perdere anche Amazon.

Infine, nella seconda parte del 2013, si apre un vero scontro politico tra l’élite digitale e i 
governi. Prima questione: i grandi motori di ricerca, Google
in testa, devono pagare editori e case discografiche, perché «è grazie a loro che esiste qualcosa 
da ricercare». Secondo problema, più rilevante per i
governi: «Questi furboni devono pagare le tasse come gli altri», perché «non è giusto che facciano 
profitti con la pubblicità sui territori europei e poi
si inguattino i soldi nei paradisi fiscali». Google viene colta con le mani nel sacco: nel solo 
2012 ha trasferito in Bermuda 8,8 miliardi di dollari.
E dalle sue sedi europee, soprattutto quella irlandese, si è sottratta al fisco con grande 
destrezza. I lobbisti di Google si scatenano per correre ai
ripari: coi francesi chiudono un pagamento di 60 milioni di dollari a favore di editori e case 
musicali, ma resta per aria la questione delle tasse – che
non è ancora risolta.

E mentre “volano gli stracci” quando si scopre che la Nsa ha spiato capi di Stato e di governo 
alleati, Twitter fa il botto a Wall Street, raddoppiando
di valore in un solo giorno. «Anche le società digitali start up israeliane fanno il pieno di 
investimenti. Per un verso sembra di essere tornati ai bei
tempi di Nasdaq prima della bolla del 1999. In realtà è Bernanke che pompa 85 miliardi di dollari 
al mese nel comparto industriale
Usa
 e quindi ne gode anche la Borsa. In ogni caso la rivoluzione digitale smuove oceani di denaro, 
provocando tsunami e bonacce, sia nella
economia
 degli scambi reali che nella
finanza
 virtuale». Google oscilla attorno ai 300 miliardi di capitalizzazione e genera un fatturato di 
circa 50 miliardi l’anno. «E’ diventato uno Stato tra gli
Stati», dice Benigni. «Quando ti chiede di accettare le sue Condizioni d’Uso per Google+ o YouTube 
sembra che proponga le nuove norme base di una futura
Costituzione Planetaria». E la stessa YouTube, di proprietà di Google, ha annunciato di aver 
raggiunto l’incredibile cifra di 1 miliardo di utenti attivi
al mese. Tutto questo, aspettando i cibernetici “Google Glasses” e le stampanti 3d che permettono a 
chiunque di riprodurre oggetti solidi, mentre si fa
largo la grande promessa del crowdfunding (azionariato popolare per finanziare l’editoria 
indipendente) e l’ultima “invenzione”, la più scottante, cioè
la moneta virtuale rappresentata dai Bitcoin.

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