droga
    I vantaggi economici della “marijuana libera”
Art. inviato in privato da Donato Taddei, 10\01\2014, h. 14.45.

Ecco quanto guadagnerebbe l’Italia legalizzando la cannabis, tra tasse in più e minori processi
Giacomo Lev Mannheimer*
Tratto da "Leoniblog"
www.linkiesta.it/legalizzazione-cannabis-italia
Quello sulla legalizzazione/liberalizzazione delle droghe leggere, si dice spesso, è un dibattito 
marginale e ideologico: la politica non ha certo tempo di pensare a queste s****zate. In realtà, 
l’unico modo di attirare l’attenzione della classe politica sembra essere quello di offrirle 
chances per ideare sigle di nuove e improbabili forme di tassazione. E allora perché non farlo 
anche con la marijuana? A far riemergere la questione è stato, qualche giorno fa, un tweet di 
Gianni Fava (l’assessore leghista secondo cui è giunta l’ora di aprire un dibattito sul tema perché 
“il proibizionismo ha fallito”), ritwittato da Maroni. Quando, poco dopo, sono arrivate la smentita 
di quest’ultimo e il fermo nein di Salvini, ho creduto che la questione sarebbe stata nuovamente 
spogliata di ogni serietà e relegata a oggetto di dibattiti liceali. Per ora non è successo. E meno 
male, perché è davvero ora di parlarne, o, come si suol dire, #iostoconfava.
 Hashish e marijuana, dove sono legali nel mondo?
La molla che ha fatto scattare il commento di Fava è stata un articolo della Stampa, a firma 
Federico Varese, sulla legalizzazione in Colorado.Un fatto politicamente importante, perché ha 
“rotto il ghiaccio” sul tema, destabilizzando le certezze della war on drugs e spronando i 
movimenti pro-legalizzazione degli altri Stati americani a farsi sentire. Non solo: esponenti 
politici democratici e repubblicani hanno già manifestato il loro consenso, richiamando argomenti 
noti. Primo fra tutti: togliere risorse al mercato nero e tassare la vendita di cannabis porta 
soldi allo Stato (si stima che il Colorado, così facendo, guadagnerà 60 milioni di dollari). 
Varese, pronosticando scenari forse un po’ fantascientifici (contrariamente a quanto afferma 
l’autore stesso), sostiene che presto la liberalizzazione potrebbe interessare tutto il continente 
americano (solo poche settimane prima del Colorado la via della legalizzazione era stata intrapresa 
dall’Uruguay), obbligando l’Europa ad adeguarsi. E constata, questo è il punto, come sia deprimente 
che, come sempre, l’Italia recepisca passivamente i progressi altrui, senza provare ad anticiparli. 
Sarà il Vaticano, sarà quello che volete, ma è deprimente. E allora, a maggior ragione, #io sto con 
Fava, perché la Fini-Giovanardi, che disciplina la materia in Italia, è ingiusta e illiberale.
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Silvia Ragusa
Le questioni aperte, com’è noto, sono tre: quella etica, quella relativa ai rischi per la salute e 
quella economica. Sulle prime due, dal mio punto di vista, il problema non si pone. O meglio, si 
pone esattamente alla stregua di quello sull’alcool (che, peraltro, fa molti più morti). Il 
dibattito sul “fanno bene-fanno male”, cioè, è totalmente vuoto: la libertà individuale finisce 
dove inizia quella degli altri. Aggiungerei che il fatto che chi vuole drogarsi lo faccia con 
prodotti aventi standard di qualità garantiti, e non con mercanzia di bassa qualità potenzialmente 
davvero pericolosa, è una garanzia decisamente maggiore, per la salute, della cieca repressione. E 
questo per un motivo molto semplice: perché la repressione non funziona. Parliamoci chiaro: chi 
vuole drogarsi, si droga lo stesso. E qui arriviamo al terzo punto: sembra assurdo dover discutere 
ancora, quasi cent’anni dopo il National Prohibition Act, degli effetti politici e sociali del 
proibizion    ismo; d’altra parte, a quanto pare, è necessario ribadire che durante gli anni ’20, 
negli Usa, non c’è stata alcuna riduzione nel consumo di alcool, mentre si è registrato un netto 
aumento della criminalità. Il che non stupisce, in quanto è esattamente il contrario di quanto 
avvenuto per la cannabis nei Paesi Bassi dagli anni ’70 in poi (un po’ di letteratura seria sul 
tema la trovate qui).
www.cedro-uva.org/lib/
Economicamente, la dinamica è chiara: il prezzo della droga, oggi, è molto alto perché chi ci 
lavora ha molti rischi. In primis, quello di finire in galera o di subire altre sanzioni. Ma non 
solo: i diritti personali e contrattuali non possono essere esercitati perché, ovviamente, non sono 
tutelati dalla legge, e ciò comporta ulteriori rischi. Tutto ciò si riflette nel prezzo, e 
l’argomento economico preferito dai proibizionisti è proprio questo: se si legalizzasse la droga, 
il prezzo scenderebbe e aumenterebbero di conseguenza i consumi. D’altronde, non ci vuol un genio 
per capire che per legalizzare la droga senza far alzare i consumi basterebbe tassarla, così da 
mantenere il prezzo costante. Il che, d’altra parte, è ciò che fanno tutti i governi del mondo con 
il tabacco e con l’alcool.
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www.linkiesta.it/legalizzazione-cannabis

Nel 2006 Gary Becker, Kevin Murphy e Micheal Grossman del National bureau of economic research 
hanno pubblicato una ricerca, denominata The economic theory of illegal goods: the case of drugs, 
le cui conclusioni sono state riprese da uno studio dell’Università La Sapienza che, nel 2009, ha 
calcolato la spesa pubblica italiana per il contrasto alla droga dal 2000 al    2005. In questo 
arco di tempo, per punire violazioni della legge sulla droga, sono state effettuate più di 140.000 
operazioni investigative, che hanno portato a circa 226.000 denunce (di cui più di 100.000 per 
cannabis), 250.000 processi e 130.000 condanne. Nello stesso periodo, circa il 38% dei detenuti 
nelle carceri italiane scontava condanne per violazioni della legge sulla droga. La spesa pubblica 
destinata alla lotta anti-droga (considerando le spese dei servizi di polizia, di magistratura e 
carcerari, relativi a reati di droga) dal 2000 al 2005 è stata di 13 miliardi di euro, di cui il 
44% concerne la proibizione della vendita della sola cannabis, che dunque è costata allo Stato più 
di un miliardo ogni anno.
E questo è solo il risparmio che potrebbe generarsi dalla liberalizzazione, senza contare i 
potenziali introiti derivanti dalla tassazione. I profitti per lo Stato, in questo caso, sarebbero 
enormi. Un’aliquota fiscale ottimale, cioè un livello di tassazione sufficientemente alto da 
ridurre il consumo di droghe rispetto a oggi ma non abbastanza da ricondurne gli scambi nel mercato 
nero, potrebbe essere quella applicata alle sigarette (cioè circa il 75%). Imponendo un’aliquota 
del 75% sui prezzi all’ingrosso registrati nel mercato nero tra il 2000 e il 2005, il prezzo 
d’offerta della cannabis sarebbe leggermente superiore a quello attualmente registrato nel mercato 
nero, mentre cocaina ed eroina costerebbero quasi il doppio. Sulla base delle stime effettuate da 
Becker, Murphy e Grossman circa l’elasticità della domanda di droghe rispetto al loro prezzo, il 
raddoppio del prezzo d’offerta di eroina e cocaina ne dimezzerebbe il consumo, mentre il consumo di 
cannabis rimarrebbe sostanzialmente uguale. Ebbene: con tale aliquota, e un volume del mercato 
della droga non difforme da quello stimato, tra il 2000 e il 2005 l’erario italiano avrebbe potuto 
riscuotere 47 miliardi di euro, di cui 32 miliardi solo dall’imposta sulla vendita di cannabis. 
Cioè cinque miliardi ogni anno. Complessivamente, quindi, il costo fiscale del proibizionismo della 
cannabis è, in Italia, di circa sei miliardi ogni anno. Sei. Miliardi. Ogni. Anno.
E tutto ciò senza considerare le implicazioni fiscali indirette del proibizionismo, fra cui spicca 
il crimine indotto. Innanzitutto, la mancata tutela giudiziaria dei diritti sui beni e sulle 
attività vietate implica spesso il ricorso alla tutela privata, dicasi violenza, con conseguente 
aumento del crimine. Le risorse utilizzate da polizia e magistratura per applicare la normativa 
proibizionista, inoltre, vengono sottratte al controllo e alla persecuzione di altre attività 
criminali, le quali, di conseguenza, sono contrastate meno efficacemente, con evidenti costi 
sociali, economici e fiscali.
Sul modo migliore di regolare il mercato della cannabis si può discutere. La maggioranza dei 
modelli visti finora (Olanda e Uruguay su tutti) è di sapore statalista ed è per questo che, anche 
in Italia, sono tendenzialmente le forze politiche progressiste ad abbracciarne l’applicazione. Ma 
la loro implementazione è comunque un traguardo di libertà che è importante perseguire, anche se 
per gradi e con caratteristiche (almeno inizialmente) non del tutto concorrenziali. Anche se 
turandomi un po’ il naso, insomma, #iostoconfava, #iostoconvendola e #iosto(perfino)conferrero, se 
le loro istanze vanno nella giusta direzione.
*articolo originariamente pubblicato su www.leoniblog.it
Articolo da "la Stampa"
Marijuana, il Colorado innesca
la valanga anti-proibizionista
www.lastampa.it/2014/01/06/esteri/marijuana-il-colorado-innesca-la-valanga-antiproibizionista-P2fKUpBNuj3ILm0FZTljMI/pagina.html
Ecco come cambierà il mercato: fuori i narcos,
arriva la produzione legale su larga scala
FEDERICO VARESE
Dal primo gennaio è possibile acquistare marijuana nei negozi del Colorado. Ora nulla sarà più come 
prima. La legalizzazione è destinata a diffondersi in altri Stati americani, e cambierà sia la 
dinamica del dibattito politico statunitense che la «war on drugs» (la guerra alle droghe, ndr) 
così come la conosciamo.
Queste trasformazioni avranno effetti sui Paesi produttori e distributori. Anche l’Europa - Italia 
inclusa - ne sentiranno gli effetti.
L’uso della canapa indiana per ragioni mediche è già legale in una dozzina di stati Usa, come la 
California, dove vi sono migliaia di produttori. Dopo il Colorado e Washington, gli osservatori 
prevedono che l’Oregon sarà il prossimo stato a legalizzare il consumo, seguito da Arizona e 
Michigan. Nel 2013 questo mercato valeva quasi un miliardo e mezzo di dollari. Esiste già una 
rispettabilissima lobby dei produttori, The National Cannabis Industry Association, con tanto di 
sito internet e lista di priorità.
Diversi esponenti democratici e repubblicani hanno cominciato ad abbracciare questa causa. Thomas 
Miller Jr., il presidente del Senato del Maryland e vecchia volpe della politica locale, si è detto 
favorevole a tassare il prodotto, perché, ha aggiunto, «so in che direzione vanno le nuove 
generazioni». La stessa posizione è condivisa dalla candidata democratica al posto di governatore, 
che propone di usare i non insignificanti introiti fiscali per finanziare programmi scolastici. 
Secondo una stima, il Colorado potrà guadagnare 60 milioni di dollari in tasse. In tempi di crisi 
economica e di casse statali vuote, è più facile (e redditizio) appoggiare questa politica che non 
i matrimoni gay, un cambiamento impensabile fino a pochi anni fa.
Come si evolverà la produzione di marijuana negli Stati Uniti? Il modello che sta emergendo prevede 
l’acquisto di una licenza, dal costo di mille dollari l’anno, che permette di coltivare e vendere 
il prodotto esclusivamente nello Stato, senza limiti alla grandezza delle tenute. Il mercato è 
dunque altamente regolato e localizzato. I piccoli produttori di marijuana medica con cui ho avuto 
modo di parlare in California qualche mese fa sanno che la legalizzazione aumenterà la 
competizione. In Colorado è previsto un periodo di transizione di nove mesi, durante il quale i 
coltivatori di cannabis medica avranno il monopolio sulla produzione, poi il sistema verrà aperto a 
chiunque ha i requisiti per ottenere una licenza. Quando arriveranno produttori di medie 
dimensioni, questi vorranno sfruttare le economie di scala e quindi modificare la legge che 
impedisce di vendere fuori dallo stato. Senza dubbio verrà presto emendata anche la legge bancaria 
federale che impedisce di depositare su un conto corrente i proventi di questo commercio.
Vi saranno presto altri sviluppi. È inevitabile che l’importazione di marijuana dal Messico si 
ridurrà in maniera significativa e così gli Stati Uniti avranno un mercato illegale in meno. Questo 
cambiamento avrà un effetto sui cartelli messicani, che perderanno tra il dieci e il trenta 
percento dei loro introiti. Nondimeno il grosso dei profitti dei cartelli proviene dal traffico 
della cocaina, dall’immigrazione illegale e dalle estorsioni. I narcos continueranno a prosperare e 
farsi la guerra, ma dovranno diversificare il loro portfolio.
D’ora in poi sarà molto difficile per il governo americano difendere la «war on drugs» nella sua 
forma attuale. L’amministrazione Obama è riuscita a far passare una risoluzione della Nazioni Unite 
contro la legalizzazione della marijuana in Uruguay. Nel passato recente, ha cercato in tutti i 
modi di bloccare i programmi per rendere legale la produzione nello stato canadese della British 
Columbia, minacciando ritorsioni di carattere economico. Con quale credibilità potrà mantenere 
queste posizioni? Il presidente del Messico ha posto la questione a Obama durante un incontro 
recente. Che senso ha spendere miliardi di dollari e rischiare la vita di migliaia di agenti per 
combattere il commercio di una merce che è legale al di là del confine? È dunque prevedibile che 
nel giro di pochi anni il Canada e gran parte dell’America latina adotteranno misure simili a 
quelle del Colorado. A quel punto sarà più difficile difendere l’attuale modello di produzione 
locale, e una liberalizzazione di dimensioni continentali sarà all’ordine del giorno, nella spirito 
degli accordi sul libero commercio dell’America del Nord (Nafta).
In questo scenario non troppo fantascientifico, anche l’Europa sarà costretta ad adeguarsi. Le 
multinazionali della marijuana prenderanno il posto dei romantici coltivatori di piantine e, come i 
lobbisti di Big Tobacco, cercheranno di convincere i consumatori che gli effetti sulla salute sono 
insignificanti. È così che operano le forze dell’economia, dove le campagne per la libertà di 
consumare presto si intersecano con interessi economici globali. I mercati illegali diventano 
legittimi, aumenta la base imponibile e il commercio prende il posto della repressione.
Una volta vinta la battaglia per la legalizzazione, è bene non dimenticare che la sovranità del 
consumatore va comunque limitata da un sano senso di responsabilità individuale e da regole non 
negoziabili. È in ogni caso deprimente che l’Europa, inclusa l’Italia, sembri subire questi 
sviluppi, invece di anticipare e influenzare un cambiamento epocale. Ancora una volta tocca alla 
più grande potenza culturale ed economica del mondo tracciare il nostro futuro.
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