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"Napule è" e rimarrà Pino Daniele
Commemorazione del "lazzaro felice" con i suoi brani piu' significativi e articoli da il mattino

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Napule è mille culure
(Napoli è mille colori)
Napule è mille paure
(napoli è mille paure)
Napule è a voce de' criature
(Napoli è la voce dei bambini)
Che saglie chianu chianu
(che sale piano piano)
E tu sai ca' nun si sulo
(cosi' sai che non sei solo)

Napule è nu sole amaro
(Napoli è un sole amaro)
Napule è addore e' mare
(Napoli è l'odore del mare)
Napule è na' carta sporca
(Napoli è una carta sporca)
E nisciuno se ne importa
(e tutti se ne fregano)
E ognuno aspetta a' sciorta
(perchè ognuno aspetta la fortuna)

Napule è na' camminata
(Napoli è una passeggiata)
Int' e viche miezo all'ate
(nel dedalo di vicoli, tra la gente)
Napule è tutto nu suonno
(Napoli è un sogno che non finisce)
E a' sape tutto o' munno
(e tutto il mondo la riconosce-napoli)
Ma nun sanno a' verità.
(ma non conoscono la verità)

Napule è mille culure
(Napule è mille paure)
Napule è nu sole amaro
(Napule è addore e' mare)
Napule è na' carta sporca
(E nisciuno se ne importa)
Napule è na' camminata
(Int' e viche miezo all'ate)
Napule è mille culure
(Napule è mille paure)
Napule è nu sole amaro
(Napule è addore e' mare)
Napuleeee

Grazie ad Antonio Ferrazza che assieme a Napule è ha fornito anche i brani tagliati quando,che male 
c'è,'na tazzulella e
cafe,a testa in giu',je sò 'pazzo,che calore,a me me piace o' blues, putesse essere allero, ma che 
ho, quanno chiove,se mi vuoi, io per lei.
da il mattino:

 a)Le lacrime di Napoli per Pino la sua musica invade la città
b)Addio al Lazzaro felice che rivoluzionò la canzone.
c)Nei vicoli tra lacrime e sorrisi i mille colori della città di Pino
d)Nel suo canto libero la voce di una città così vicina, così lontana

da il mattino del 06\01\2015

Il Mattino - 6 gennaio 2015, martedì
Pagina 24
Le lacrime di Napoli per Pino la sua musica invade la città
Elena Romanazzi
Il risveglio è amaro. Come na' tazzulella 'e cafè bruciata. Imbevibile. Indigesta. Dolorosa. Uno 
choc per Napoli. Se n'è andato Pino Daniele. La notizia della prematura scomparsa corre veloce sui 
social e in città. Il tam tam è incessante. Il lutto è comune e grande. Appartiene a tutti. Giovani 
e meno giovani. Ognuno ricorda un brano delle canzoni. Quella che è rimasta nel cuore e nella 
mente, quella che ha caratterizzato un particolare momento della propria vita e di Napoli. Perchè 
"Pino è in tutti noi", spiega il sindaco Luigi de Magistris, "è amato da tutti i napoletani al di 
là delle scelte di vita che poi ha fatto". "Lui è morto - aggiunge - ma la sua musica è eterna. 
Pino è Napoli, legame infinito e indistruttibile, come il suo e la voce della sua musica".
E' sconvolto il sindaco. La notizia l'ha appresa alle 6. "Quest'anno abbiamo ricordato i vent'anni 
della scomparsa di Massimo Troisi e ora anche la perdita di Pino è incolmabile". I contatti con la 
famiglia e l'entourage di Daniele sono intensi per tutta la giornata. Il sindaco ha proclamato 
subito il lutto cittadino e ordinato di mettere le bandiere di via Verdi e del Municipio a 
mezz'asta per ricordare la morte di un figlio che grazie alla sua musica ha fatto conoscere la 
città nel mondo. Al Maschio Angioino la bandiera la tira giù direttamente il custode, un fan di 
Pino Daniele che non ha voluto attendere l'aiuto di nessuno. Il castello medioevale è stato messo a 
disposizione da De Magistris per la camera ardente. Ed accoglierà invece le ceneri per l'ultimo 
saluto, dopo i funerali decisi dai figli di farli a Roma, della città.
E' sconvolta la città. Tutti i quartieri anche in quelli dimenticati dove comunque la musica di 
Daniele ha attraversato le vite dei residenti nel bene e nella rabbia. Un murales fatto in fretta e 
furia da Rafo con l'immagine di Daniele colora Gianturco. Molti fan sono partiti verso la capitale 
a salutare il proprio idolo, emblema dell'orgoglio e del riscatto di Napoli. Molti hanno scelto di 
ricordarlo portando un fiore lì dove ha vissuto. O lasciando un biglietto con una frase delle sue 
canzoni. L'omaggio alle ceneri è previsto al Maschio Angioino, forse già nella giornata di venerdì. 
I tempi si conosceranno solo nelle prossime ore. Dettagli ancora da limare e non viene esclusa 
l'ipotesi che prima della tumulazione in Maremma le ceneri restino in città non un giorno ma più 
tempo per consentire a tutti i cittadini di rendere omaggio al "nero a metà". "Siamo felici - 
commenta De Magistris - che la famiglia di Pino Daniele abbia accettato la nostra disponibilità ad 
ospitare per l'ultimo saluto le ceneri di Pino. Tutta Napoli ne sono certo verrà a salutare il suo 
Pino".
I commenti ististuzionali della città sulla morte di Pino Daniele sono molteplici. "Napoli perde 
una delle sue migliori voci - twitta il presidente della Regione Stefano Caldoro - un artista 
internazionale che ha raccontato e valorizzato la sua terra". La città perde - dichiara l'assessore 
regionale alla Cultura Caterina Miraglia - non solo un grande artista ma la voce forte e dolente di 
un uomo sensibile ai temi sociali, interprete del malessere e delle speranze della nostra gente.
Napul'è nel cuore di tutti. E la straordinaria canzone verrà intonata questa sera al Plebiscito in 
un flash mob la cui organizzazione è partita dalla rete ed è stata condivisa da migliaia di 
cittadini. Ed anche domani, in coincidenza con i funerali a Roma al Plebiscito si sta organizzando 
un funerale popolare. Napul'è verrà anche cantata allo stadio San Paolo domenica. "A nome di tutto 
il Napoli - scrive il patron della squadra De Laurentiis - esprimo il dolore per la scomparsa di 
Pino Daniele. Lo ricorderemo al San Paolo". Un genio musicale. Così lo definisce De Laurentiis. Una 
amicizia lunga la sua nata nel lontano '78. Napul'è anche nel cuore di Benitez: "Una canzone, 
insieme a tante altre - spiega il tecnico - che esprime il sentimento della città, il cuore della 
città così come l'ho conosciuta".
"E' la voce della musica della mia generazione - spiega il rettore della Federico II Gaetano 
Manfredi - Pino Daniele rappresenta una Napoli che malgrado i problemi ha la consapevolezza delle 
sue grandi potenzialità. Mi auguro che il suo ricordo consenta a tutti noi di realizzare una realtà 
migliore". "Pino Daniele aveva colmato ogni tipo di lacuna - commenta Arturo de Vivo, pro rettore 
vicario della Federico II - oltre al cantautore alla voce, ai testi alla musica in quanto tale, ha 
significato il recupero di una tradizione classica napoletana in un linguaggio internazionale, 
neapolitan power. Per una generazione come la mia è stato l'apertura europea, americana. L'orgoglio 
di una appartenenza alla cultura napoletana che riprendeva il suo respiro internazionale".
L'orgoglio, la voce della città. Un simbolo per tutti. Un "grande" come twitta Gianni Lettieri. "Se 
ne va una parola che sa farsi poesia - aggiunge l'assessore alla scuola Annamaria Palmieri - 
l'alito roco e caldo che viene dalle viscere di questa città e la rende patria meravigliosa del 
sound mediterraneo. Un uomo - aggiunge Nino Daniele, assessore alla cultura del Comune - che con la 
sua musica e la sua parola-poesia ha raccontato i valori più intimi della città e riuniremo artisti 
ed amici per organizzare un programma adeguato ad onorarne la memoria. Alla Federico II, Raffaele 
Savonardo, ricercatore di sociologia dei processi culturali e comunicativi del Dipartimento di 
Scienze Sociali, aveva già contattato e deciso una lezione con Pino Daniele. Ci sarà - spiega - ora 
una giornata di studi con esperti e con artisti che possano discutere di come le produzioni 
musicali di Pino Daniele abbiano mutato il linguaggio della musica che parte da Napoli ma che 
incontra e abbraccia tutte le culture del mondo.
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b)Addio al lazzaro felice che rivoluzionò la canzone.
Il Mattino - 6 gennaio 2015, martedì
Pagina 2
Addio al «lazzaro felice» che rivoluzionò la canzone
Federico Vacalebre
Alzati che sta passando il fondatore della nuova canzone popolare napoletana.
Pino Daniele fu salutato al suo esordio come un guastatore, un terrorista melodico, un contestatore 
zazzeruto, un pericoloso eversivo di sinistra che voleva buttare in politica tutto, persino 'na 
tazzulella 'e caffè e Masaniello, che prima di allora nero ed incazzato non si era mai visto.
La via moderna alla canzone napoletana era stata aperta, trovata, cantata, il mascalzone latino, e 
nero a metà, e lazzaro felice, ed uomo in blues prossimo venturo, teneva insieme sin dall'esordio 
commovente di "Terra mia" (1977) Murolo e Presley, i mandolini e le chitarre elettriche, scandendo 
con inesorabile e lucida poesia da voce di dentro cosa Napoli era davvero e per cosa, invece, la si 
contrabbandava.
Giuseppe Daniele (Napoli, 19/3/1955 - 4/1/2015) se n'è andato in gennaio, come Gaber e De André, 
lasciando come loro un vuoto incolmabile, una presenza indicibile, un silenzio assordante. Il 
ragazzo venuto da una famiglia umile ma onesta, Troisi docet, cresciuto dalla zie visto che i 
genitori non potevano sfamare così tante bocche, vissuto da scugnizzo nel centro storico allora 
abbandonato a se stesso molto ma molto di più di oggi, era diventato, anche obtorto collo, la voce 
di una città senza voce, il megafono di una generazione che voleva portare l'immaginazione (e la 
rivoluzione) al potere ed è riuscita al massimo a portare la poesia in hit parade. Nella 
generazione dei cantautori engagé, tutti testo e messaggio e poca musica, lui fu il ribelle senza 
pausa che mise in campo il sound, il groove, il ritmo. Negli anni del dialetto negletto, lui lo 
riportò in auge, riconsegnando ai napoletani l'orgoglio della nuova lingua, ma anche un nuovo uso: 
al posto delle liriche perfette e romantiche di Di Giacomo quelle scabrose sull'impossibilità di 
fare la rivoluzione con il pantalone rotto, lo slang anglopartenopeo rubato, con il blues e il 
funky, nei locali del porto per gli americani della Nato. E con l'aggiunta dell'antica parlesia, 
della lingua ottocentesca dei musici di strada. Con lui resuscitò la bella 'mbriana, con le sue 
canzoni capimmo chi era 'o jammone base e cosa fosse una bagaria, perché le femmene belle erano 
quelle che avevano grandi "tennose".
Iniziò bambino con una chitarrella da poche lire, la suonava "areto 'a palma" di piazza Santa Maria 
La Nova, poi fondò un gruppo dal nome strambo ed il suono indefinibile, i Batracomiomachia. Della 
guerra tra le rane e i topi forse sapeva poco, tranne che all'epoca le band si davano nomi strani, 
ma della vita sapeva già molto, anche perché era stato illuminato dalla voce di Mario Musella, vero 
nero a metà, vero indiano cherokee a metà, vero napoletano verace al cento per cento. Come lui, 
come James Senese, che lo accettò al basso con i Napoli Centrale, ma poi lo lasciò andar via, 
cosciente di aver incontrato un fuoriclasse.
Arbore, Eduardo, il patron del Festivalbar Salvetti, furono tra i primi ad accorgersi di lui, bastò 
il primo 45 giri, "Ca calore", motivetto apparentemente innocuo, ma in realtà primo esercizio 
antioleografico. "'Na tazzulella 'e cafè" rincarò la dose, figlia della consapevolezza di "Le mani 
sulla città" più di qualsiasi deriva locale. Eppure quei pezzi finirono in "Terra mia", lp di 
debutto del 1977, data di nascita della nuova canzone napoletana, che poi fu perfezionata, anno 
dopo anno, da titoli come "Pino Daniele" (1979), "Nero a metà" (1980), "Vai mo'" (1981).
Capace di scrivere a 18 anni un capodopera come "Napule è", scoperto da Renato Marengo e Claudio 
Poggi, trovato in un producer emiliano come Willy David il complice ideale di quell'inizio di 
carriera, Pinotto divenne un bandleader di carisma e intuito eccezionale, riunendo intorno a sé 
James Senese, Tullio De Piscopo, Tony Esposito, Rino Zurzolo, Joe Amoruso, Ernesto Vitolo, Gigi De 
Rienzo, Rosario Jermano e un supergruppo cangiante, ma irresistibile, con cui trionfò il 19 
settembre 1981, invitato dal primo sindaco comunista di Napoli, Maurizio Valenzi, a liberare per la 
prima volta dalle auto piazza del Plebiscito. La festa di San Gennaro, la piedigrotta della nuova 
Napoli diede vita alla leggenda pinodanieliana, ma mise anche fine all'intesa con la neapolitan all 
star band. Troppi galli in un pollaio, troppi cavalli di razza in una scuderia, troppi interessi in 
gioco. Esposito e De Piscopo sfornarono i loro hit, Daniele iniziò a flirtare con il music set 
internazionale, fondendo melodie veraci, blues, funky, soul, jazz, reggae, poi anche sound 
d'Afrique con musicisti del calibro di Wayne Shorter, Alphonso Johnson, Mel Collins, Jerry Marotta, 
Mino Cinelu, Pino Palladino. E l'elenco è infinito: da Randy California, Steve Hunter, Robby 
Krieger, Phil Manzanera, Leslie West (con lui nella "Night of the guitar") a Don Cherry, Chick 
Corea, Gato Barbieri, Bob Berg, Billy Cobham, Ralph Towner, Al Di Meola, Peter Erskine, Trilok 
Gurtu, Richie Havens, i Simple Minds, Nanà Vasconcelos, Noa, fino a Pat Metheny e Eric Clapton. Nel 
1980 fu persino supporter di Bob Marley a San Siro.
La sua epoca d'oro fu scandita da dischi imperdibili, compresi i live, perfetto incastro di Napoli 
e resto del mondo, melodia e ritmo, parole e note, a un certo punto anche dialetto e italiano: 
"Bella 'mbriana" ('82), "Musicante" ('84), "Sciò live" ('84) "Ferryboat" ('85), "Schizzichea with 
love" ('88), "Mascalzone latino" ('89), "Un uomo in blues" (1991, con "'O scarrafone" e la prima 
denuncia del razzismo della Lega Nord), "Sotto 'o sole" ('91), "E sona mo'", registrato dal vivo a 
Cava de' Tirreni. Problemi di cuore lo portarono a rarefare le sue apparizioni pubbliche, ma per 
fortuna c'è l'amicizia e l'intesa con Massimo Troisi, con cui fa banda, gioca in televisione con 
Minà, scrive canzoni come "Quando", destinate a "Pensavo fosse amore... invece era un calesse", 
l'ultimo dei suoi film da lui musicati dopo "Ricomincio da tre" e "Le vie del Signore sono finite", 
e "'O ssaje comme fa 'o core". I versi parlavano d'amore, ma l'allusione ai loro due cuori matti 
era evidente, struggente, autoironica.
Poi vennero anni più pop, di straordinario successo nazionalpopolare: "Che dio ti benedica" ('93), 
con Ornella Muti nel videoclip del singolo omonimo, "Non calpestare i fiori nel deserto" ('95) 
vendette un milione e duecentomila copie, "Dimmi cosa succede sulla terra" ('97). A Napoli qualcuno 
si sentì tradito, non gli perdonò la leggerezza, soprattutto dei testi, di "Come un gelato 
all'equatore" ('99), ma non riuscì a non godersi il suono arab rock di "Medina" (2001) e 
soprattutto le storiche tournée del trio con Ramazzotti e Jovanotti ('98); del quartetto con De 
Gregori, Mannoia e Ron (2002); del ritrovato supergruppo di "Ricomincio da 30" (2008) che culminò 
l'8 luglio in una diretta su Raiuno dalla "sua" piazza del Plebiscito che coinvolse anche Giorgia, 
Chiara Civello, Irene Grandi, Avion Travel, Nino D'Angelo, Gigi D'Alessio; del mucchio selvaggio 
napoletano che lo vide festeggiare il nuovo anno nel 2012 e nel 2013 con un concerto grosso 
newpolitano al Palapartenope, rito appena rinverdito in qualche modo il 16 e 17 dicembre scorso con 
due date speciali del tour di "Nero a metà".
L'azzardo neomadrigalista di "Passi d'autore" (2004), "Iguana cafè" (2005, con una cover di "It's 
now or never"), "Il mio nome è Pino Daniele e vivo qui" (2007), "Electric jam" (2009), le riletture 
di "Boogie boogie man" sono i passi più recenti, sino a "La grande madre" del 2012, suo ultimo 
album in studio, con il singolo "Melodramma" dedicato a Luciano Pavarotti che lo volle sul palco di 
Modena per dividere con lui "Napule è": una carriera in una canzone, una delle prime, una città in 
una canzone.
Ciao Pino, grazie di tutto.
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c)Nei vicoli tra lacrime e sorrisi i mille colori della città di Pino
Pietro Treccagnoli
Napul'è mille Pino Daniele. Davvero uno e centomila. Certamente non nessuno. Pino è la voce che 
ieri tutti ricordavano e ascoltavano, con commozione, ma pure con un sorriso, perché per ognuno se 
n'era andato un amico, un fratello e una nota che riempiva il cuore di dolcezza persino quando eri 
triste e triste appariva la canzone, eppure ti faceva stare bene, era un balsamo. Pino era Napoli e 
resterà Napoli. Nel centro antico dai balconi, dietro il sipario dei panni stesi nel freddo del 
gennaio più straziante per la musica napoletana, come un sospiro sfuggiva qualche verso di "Putesse 
essere allero" o di "Che male c'è". A piazza Dante, dalle casse esterne della storica rosticceria 
"Vaco 'e pressa" risuonavano le note di "Gente distratta". La gente era attenta, però, canticchiava 
le parole, mentre gli occhi si arrossavano. E non era solo il gelo di quest'anno cominciato con il 
piede sbagliato. E l'arancino annozzava in gola.
Piazza del Plebiscito, il San Paolo, Bagnoli, il Palapartenope (oltre ad altri luoghi della 
Campania, dell'Italia e del mondo) sono i templi dove si è celebrato il culto di Pino Daniele. La 
sua chitarra li ha riempiti e li ha illuminati. Ma la storia del lazzaro felice profuma non solo 
del mare di Mergellina dove andare la domenica mattina come canta in "Che soddisfazione", ma 
soprattutto dei vicoli e delle strade dove è nato e cresciuto, dove dal tufo nudo ha succhiato il 
senso della vita, come il latte dal seno materno. Qui, in quel groviglio del quartiere che si 
chiama Porto, ma che ha allontanato da sé il sale delle onde, Pino è diventato uomo e artista. 
Accanto alle Università di Mezzocannone, alle sedi storiche della Federico II e dell'Orientale, in 
quella contaminazione di bassi e università, cultura del popolo e cultura accademica, laddove la 
Napoli eterna si proiettava nel mondo e dal mondo captava suoni e idee, voci e fermenti. Questa 
miscela prodigiosa, shakerata tra gli anni Sessanta e Settanta, ha costruito le fondamenta del più 
musicale dei cantautori italiani, dell'uomo in blues, del nomade della Medina e del boogie boogie 
man. Qui, a via Francesco Saverio Gargiulo, che un tempo si chiamava vico Foglie a Santa Chiara, al 
numero 20, nel marzo di sessant'anni fa, è nato. In un sottoscala, come racconta nella sua 
autobiografia di vent'anni fa, pubblicata da Tullio Pironti che è ancora incredulo: "Sembra ieri 
che Pino mi chiamò per stampare il suo libro. Andai a casa sua a Roma. Scattò subito un feeling 
straordinario. Ci univa Napoli e ci siamo capiti al volo". Ora, nel sottoscala del Nero a metà 
vivono due neri interi. La pelle di Napoli sta cambiando. Non c'è più solo l'Orientale, c'è 
l'Oriente e il Sud del mondo che hanno trovato ospitalità e hanno insegnato i propri ritmi a chi, 
come Pino Daniele e tutta la neapolitan wave, li ha sempre saputi ascoltare e se n'è nutrita.
La famiglia di Pino ha poi vissuto nella strada parallela a via Gargiulo che da un lato sale, 
anch'essa, verso Spaccanapoli e dall'altro scende verso Palazzo Giusso: via San Giovanni Maggiore 
Pignatelli. Ora al civico 13A abita un fratello del cantautore, Salvatore. Il pesante portone di 
legno è mezzo accostato. Sopra è attaccato un biglietto bianco listato a lutto "per la morte di 
Pino Daniele". Arriva Salvatore. Ha la stessa faccia del fratello maggiore, pure lo stesso 
pizzetto. Impressionante. E' sostenuto da un amico. Ha a malapena la forza di pronunciare: "Sono 
addolorato. Sto andando a Roma". La famiglia originaria del Mascalzone latino ha lavorato con il 
porto e, tra fratelli, sorelle, zii e cugini, ha colonizzato l'intera zona. Tutti conoscono Pino, 
che chiamano affettuosamente Pinotto. Chi non lo vede da anni, chi solo da qualche mese. E chi ha 
frequentato con lui qualche anno di scuola. Le elementari, il futuro cantautore, le ha fatte alla 
Oberdan di via Carrozzieri a Montecalvario, alle spalle della storica sede di Architettura, le 
medie alla Foscolo di piazza del Gesù Nuovo. Poi le superiori al Diaz di via dei Tribunali.
E' questa l'epoca in cui l'ha conosciuto l'attore Alan De Luca che ieri mattina era fuori la sua 
casa a voler ripercorrere quegli anni. "Ricordo quando andavo ad ascoltare Pinotto in uno 
scantinato, o meglio una grotta alla Sanità" rievoca. "Aveva un gruppo che si chiamava 
Batracomiomachia. Lui stesso, che avrà avuto allora sedici-diciassette anni, componeva le canzoni. 
Già si capiva che sarebbe andato lontano, che era un grande". Fuori al portone s'è radunato un 
gruppo di amici. "Pinotto" spiegano "traeva ispirazione da tutto quello che lo circondava. I suoi 
personaggi erano estratti dalla realtà. La Donna Cuncè della famosa canzone era, al 99 per cento, 
sua nonna, che Concetta si chiamava".
Madre, fratelli, cugini, nipoti. E anche zie. Proprio con due zie Pino è cresciuto in un altro 
palazzo, a via Santa Maria la Nova 32, di fronte all'ingresso del chiostro della chiesa angioina. 
Ora, nell'edificio ad angolo, impreziosito da uno stemma di piperno con leone rampante, vive un 
altro fratello, Carmine. "Ogni mattina viene a prendere il caffè da noi", informano al bar 
Battelli, due passi più avanti. Il fratello? "Certo lui". E Pino? "L'ultima volta l'abbiamo visto 
un paio di mesi fa. E' venuto a trovare Carmine". Al bar Battelli, da ragazzo l'Uomo in blues, 
faceva colazione ogni mattina. "Una pizzetta e un caffè, mi hanno raccontato" dice la giovane 
proprietaria, Iolanda Esposito, che tre anni fa è subentrata ai Battelli. Qui si è ispirato per "Na 
tazzulella 'e cafè". E la sua foto, stretto tra Eros Ramazzotti e Lorenzo Jovanotti, è stata 
collocata da tempo sotto quella di Totò e Peppino che, come in un gioco di specchi, sono al banco 
per un corroborante sorso nero bollente. "Era ghiotto della nostra pizzetta" aggiunge la Esposito. 
"Da oggi in poi la ribattezzeremo con il suo nome, la ?Pino Daniele?: pomodoro, mozzarella e un 
segreto, quel segreto che c'è anche nella sua musica".
Basta na jurnata 'e sole. Ma adesso il sole sembra una beffa, perché è racchiuso in un enorme 
bozzolo di freddo siberiano. Un ossimoro meteorologico che rappresenta alla perfezione i sentimenti 
di Napoli. Il sole riempie piazza del Gesù Nuovo. Dal lato della chiesa barocca arriva il suono di 
un gruppo musicale. Artisti temporaneamente di strada. I Fronna Africana. Sono le note di "Carmela" 
di Sergio Bruni. Ma subito dopo la voce della cantante Francesca Barbatella attacca "E cerca 'e me 
capì". "E pruove a vede' cu' dint'a ll'uocchie 'o sole e c'o cazone rutto a parlà 'e Rivoluzione e 
cride ancora e cride ancora". I passanti si fermano ad ascoltare. Una ragazza riprende tutto con lo 
smartphone. Poi scatta l'applauso collettivo. Non è gente distratta. Alle percussioni c'è Sasà 
Cosenza, pizzetto grigio, occhiali tondi colorati, kefia al collo e cappello nero, che in passato 
ha accompagnato Pino sul palco. Di fronte, l'edicola storica ha da poco cambiato gestore. Ora a 
vendere giornali e souvenir c'è Angelo Daniele. Parente? "Sono il cugino" ammette. "Siamo figli di 
due fratelli. Non riesco a dire nulla, scusatemi. Ecco, solo che Pino era un grande musicista".
E' il leit motiv che rimbalza dovunque ti muovi. Come un'eco non rituale. In tanti sono davvero 
ammutoliti. C'è persino, caso più unico che raro, chi non s'è accorto di nulla. E' mezzogiorno 
passato, quando nella piazza si materializza, come un personaggio dell'Ottocento russo, Pietro 
Botte dei Posteggiatori Tristi, in arte, non a caso, Karamazov. Che canzone di Pino Daniele 
metterebbe nel suo repertorio? "Bo', ce ne sono tante". Ci deve pensare. "Ma perché? C'è qualche 
anniversario?". Ma non lo sa? Pino è morto nella notte. Sguardo alla Dostoevskij davanti al finto 
plotone di esecuzione. Poi si riprende. "Ah, allora è per questo che da stamattina sento suonare 
dappertutto la sua musica".
Altra piazza, ma stessa storia. All'ombra di Dante hanno passeggiato e passeggiano ancora tanti 
personaggi che hanno ispirato leggendarie canzoni. A cominciare dal tarallaro Fortunato, quello che 
teneva la roba bella, "'nzogna 'nzò". Non c'è più da anni. Ma tra il Cavone, la Pignasecca e i 
Decumani si sentiva risuonare il suo richiamo immortalato da Pino. Un pezzo della famiglia del nero 
a metà è nel Cavone, in via Correra. E adesso questo budello che sale verso piazza Mazzini sembra 
davvero la sintesi del sound di Pino. Scorcio multietnico di Napoli, con i manifesti religiosi e 
commerciali dei cingalesi, con i loro odori e i loro suoni, le loro voci che si impastano con 
quelle indigene. Vocali su vocali, fritto su fritto. Passa velocemente pure il "buono guaglione" 
che, vox populi, è al centro dell'omonimo hit. Passo veloce, niente tacchi a spillo, ma comode 
scarpe basse. Si riesce a strappare solo un ambiguo "sì, lo conosco Pino Daniele, chi è che non lo 
conosce a Napoli?", che non chiarisce e non smentisce. Da quando, anni e anni fa, è uscita la 
canzone la chiamano anche Teresa, ma pure Valeria o Gianna o Gianni. Scende a fare la spesa. Ma per 
lei, tranne qualche ruga in più, il tempo in cui credere all'amore non è mai passato. A confermare 
la voce della fonte d'ispirazione c'è il polliere del Cavone, Rosario Natoli: "Ma Teresa o Gianni 
non dà confidenza a nessuno" precisa. Il ragazzo di bottega ha dei tratti del viso inequivocabili. 
"Sì sono il nipote di Pino" conferma, aggiungendo di chiamarsi Ciro Lepore. "Sono figlio di un suo 
cugino". Napoli è la grande famiglia di Pino, famiglia naturale e famiglia acquisita perché ogni 
napoletano conserva dentro il cuore un pezzetto di Pino e lo porterà per sempre con sé.
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d)Nel suo canto libero la voce di una città così vicina, così lontana
Federico Vacalebre
Faceva progetti come chi sperava di avere una vita davanti a sé: un nuovo disco entro l'anno, un 
festival del Mediterraneo, un libro sulla sua storia. Ma forse Napule è un po' appiccicata con lui, 
perché è morto lontano, perché i funerali si svolgeranno lontano, perché sarà sepolto ancora più 
lontano, anche se la città ha ottenuto di poterlo salutare un'ultima volta. Ma Napoli non può 
litigare con se stessa, con il Nero a metà che ha saputo raccontarne meglio luci e ombre, radici e 
ali.
Napule è Pino Daniele, e lo sarà a lungo non tanto nella retorica dei coccodrilli di routine, 
quanto nelle voci rotte dell'emozione di chi lo saluta come si fa con una persona cara, un parente 
speciale, quello che sapeva dire ciò che gli altri familiari, noi compresi, non sapevamo e non 
sappiamo dire. Eppure Pino si affacciò alla vita e alla canzone in una città che non aveva spazio 
per lui, contro cui lottò come Don Chisciotte contro i mulini a vento. La tradizione canora 
imperante lo rifiutava, poi l'ha incoronato. La politica aveva paura di quella ventata nuova che 
rappresentava, poi l'ha blandito. L'intellighenzia non voleva avere nulla a che fare con quel 
ragazzotto paffuto che veniva dal centro storico e che nell'era della retorica folkloristica 
imperante ripeteva che chi tene 'o mare nun tene niente, porta 'na croce. Napoli che ha imparato a 
portare i bambini al sole "per insegnar loro dove fa freddo e dove fa più calore" è gelata dentro. 
I luoghi del lazzaro felice diventano oggetto di pellegrinaggio massmediatico, ma ognuno dentro a 
sé alterna ricordi e suoni.
"Napule mille culure" oggi è più scura, "Napule mille paure" oggi ha perso anche "la voce d''e 
criature e tu sai che si' cchiù sulo". E disarmato. E non importa quanto negli ultimi anni la 
spinta propulsiva della creatività di Daniele si fosse esaurita, l'avesse trasformato da cantautore 
a suonautore, gli avesse fatto amare più il palco e i progetti speciali delle sale di registrazione.
Sono passati quasi quarant'anni dal suo debutto, da quel 1976 in cui, con un singolo come "Ca 
calore", mise alla berlina ogni napoletanismo possibile, persino quello della "bella giornata". Non 
l'aveva vista mai una bella giornata, lui, cresciuto con le zie perché i genitori non potevano 
sfamare troppe bocche. Ma poi se l'era creato, "nu juorno buono", e l'aveva regalato a noi tutti, 
diventando il ponte che portava da Roberto Murolo a Carlos Santana, da Sergio Bruni ai Weather 
Report. Nel primo disco c'erano i mandolini e le chitarre elettriche e una terra che parlava di 
libertà. La speranza non era morta, ma durò poco. Fortunato che vendeva "'a robba bella, 'nzogna, 
'nzogna". Pullecenella che non era più una maschera, Masaniello che era nero e incazzato e portava 
le parolacce, anzi i bip, in classifica. Il dialetto in hit parade? Proprio così, e negli stadi, 
ridando dignità a una lingua gloriosa ed avvilita, reinventandola da linguista incosciente: da un 
lato le parole di Bovio e Viviani respirate nell'aria, dall'altro lo slang napoenglish usato nei 
locali degli americani della Nato e, a rendere tutto ancora più nuovo anzi antico, la riscoperta 
della parlesia, l'antico vocabolario dei musicisti di strada, dei vagabondi che si avvertivano l'un 
l'altro con una grida dell'arrivo delle guardie o dei polli da spennare. Ma "Donna Cuncetta", forse 
la sua canzone più bella, celebrava - si fa per dire - già la fine delle illusioni: "'O tiempo d''e 
cerase è già fernuto". Non ancora Gomorra, ma già paradiso abitato da diavoli, la città porosa 
trovava un cantore verace eppure internazionale, figlio di Renato Carosone, papà del movimento 
dell'orgoglio ritrovato, del neapolitan power, risposta glocal al black power. Intrisi di 
classicità partenopea e modernità afroamericana, di latin blues e di melodie, di soul e jazz, di 
funky e rock, i lazzari felici furono un dream team da mille e una notte, nell'era dei cantautori 
tutto testo e impegno, lui-loro aggiungeva-aggiungevano suoni, ritmi, muscoli, sesso, cuore: James 
Senese, Tullio De Piscopo, Tony Esposito, Rino Zurzolo, Joe Amoruso e tanti altri (Gigi De Rienzo, 
Ernesto Vitolo, Rosario Jermano...) erano l'avanguardia di un movimento spontaneo, musicale, 
culturale, sociale, politico che avrebbe presto contaminato altre arti e altre generazioni. 
Maurizio Valenzi, il primo sindaco comunista di Napoli, li volle in piazza del Plebiscito, il 19 
settembre 1981. Fu la prima volta che fu liberata dalle automobili, che San Gennaro fu festeggiato 
con una piedigrotta postmoderna, che centomila ragazzi napoletani si ripresero la città. Ma siccome 
Napule è Pino Daniele, fu anche la fine del sogno, poi le ambizioni soliste, i chiacchiericci, le 
"bacchette" incrociate portarono alla fine del supergruppo, destinato a ritrovarsi solo trent'anni 
dopo, o giù di lì. L'uomo in blues rispose a quello che sentiva come un tradimento scappando dalla 
città e dai napoletani, iniziando una serie di collaborazioni internazionali che nessuno in Italia 
può vantare. Formia divenne il suo buen retiro, a casa tornava di notte, di nascosto, troppo forte 
la pressione di chi lo voleva salvatore della patria, o almeno dei suoi debiti. Canzoni capolavoro 
addolcirono l'esilio, l'intesa con Massimo Troisi gli restituì il profumo di casa. E poi Napoli 
tornò città aperta per lui, tra San Carlo e Plebiscito, la sua piazza. Tra San Paolo e Mostra 
d'Oltremare e Bagnoli. Ma anche città chiusa, perché tanto spesso non c'erano spazi adatti ed era 
costretto a "ripiegare" sullo stadio di Cava de' Tirreni, persino quando i suoi partner si 
chiamavano Metheny e Clapton, o sullo stadio di Salerno, o sulla reggia di Caserta. Perché Napoli è 
Pino Daniele, nel bene e nel male. E lo sa come fa il cuore, quando è ferito a morte, quando 
l'armonia è perduta, come la grande bellezza del canto libero dell'uomo in blues.
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