Metti
una sera a cena
all’Istituto
Cavazza
Emozioni e
considerazioni di un ospite dell’iniziativa “Una cena al buio”,
promossa dall’Istituto dei Ciechi F. Cavazza e realizzata dal gruppo
di artisti catanesi “Famiglia sfuggita”.
Alberto Borghi
Il
portone si chiude alle spalle e strappa le ultime luci del giorno irradiate
dai festoni natalizi che assillano le strade della città. L’ospite
scivola nel silenzio del corridoio e cerca le prime risposte.
Con gli occhi sonda il territorio, esamina le vie di fuga, analizza i dati
immediatamente percepibili. È l’istinto che gioca con le
sue regole. L’istinto che ti spinge a fissare le regole del gioco, o
quanto meno a definirle. Il controllo è totale, non ci si può
permettere di restare in balìa degli eventi o delle altre persone.
Ce ne sono una decina, di persone, all’interno dell’Istituto Cavazza.
Invitate, come te, a provare un’emozione dimenticata al tempo in cui,
bambino, ti nascondevi sotto le coperte per sfuggire ad un buio avverso, per
rifugiarti nell’oscurità delle lenzuola che odoravano della tua
pelle. Si tratta dell’iniziativa Cene al buio, promossa dall’Istituto
e realizzata dalla Famiglia sfuggita, gruppo di artisti siciliani.
Cerchi volti amici, rassicurazioni e certezze. Studi le espressioni, indaghi
per cogliere i segnali dell’inconscio. Individui i soggetti che pensi
di poter tollerare, quelli che potrebbero essere tue vittime e quelli che
hanno tutta l’aria di poterti fregare. Cataloghi i presenti per porli
nelle categorie dei simpatici e degli antipatici.
Tre minuti e hai già un’idea precisa della realtà che
ti circonda. Ma nessuno ha parlato. Ti è bastata... un’occhiata.
Improvvisamente una voce stentorea, quasi autoritaria, ti invita ad abbandonare
gli strumenti del tempo e della distanza, affettiva e fisica: l’orologio
ed il telefono cellulare. E già ti senti strano, percepisci una mancanza
che lambisce il territorio dell’insicurezza, dai confini sempre mobili
ed agitati.
Osservi la ragazza che si allontana con le tue lievi armi e ti scopri a condividere
con gli altri ospiti un brivido che tradisce un lieve piacere: la sensazione
di non essere in un luogo qualsiasi, confuso nella moltitudine, immerso nella
tempesta delle sollecitazioni multimediali; bensì... qui ed ora. Non
conosci nessuno e già hai qualcosa in comune con loro: hai vissuto
il lutto dello strappo dell’orologio e del cellulare. I confini del
tempo sono, ora, sanciti dall’esperienza sensibile che va cominciando
ad aprirsi un varco nella tua giornata colma di impegni e doveri.
Una certa leggerezza si manifesta non appena ti muovi, seguendo i passi della
stessa ragazza, avvicinandoti alla soglia di una stanza che immagini essere
grande, ma che non è possibile scorgere se non nei suoi ristretti lembi
di luce scagliati dalla porta socchiusa.
Un lieve passo e sei nel nulla. O quello che percepisci essere il nulla, nell’immediatezza
dell’istante in cui l’oscurità ti avvolge e si fa completa.
Ti blocchi, divieni immobile come sull’orlo del precipizio, come se
tutt’intorno la terra si fosse fatta di vetro e minacciasse di frantumarsi
al tuo minimo movimento. Un vetro maledettamente oscuro.
Una brezza... ed una carezza che taglia l’oscurità si posa sulle
tue spalle. Un fremito di paura che diviene ben presto la grazia del calore
di una mano amica. L’angelo si è posato sul terreno di vetro
ed ora è al tuo fianco. Lo sai, ma nulla te lo può dire: solo
l’istinto, solo quella magnetica sensazione che vibra non appena
un essere vivente ti sfiora, può rivelarti la presenza dell’angelo.
E’ la mano di una ragazza, pensi. Il perché, poi, non lo sai,
ma ti viene spontaneo pensare che la dolcezza di quella carezza, la rassicurante
fermezza con cui ti sta accompagnando verso un qualche punto della sala, appartengano
ad una donna. Frammenti di tempo e la mano di madre che accende la luce della
tua stanza di bambino in cui gridavi dalla paura ed invocavi il suo nome,
si incarna in quella dell’angelo.
Non chiedi nulla e ti affidi a lei. Procedi per qualche passo ed ascolti il
silenzio. Era nei patti, è vero, ma hai la certezza che nessuno avrebbe
parlato, comunque. Qualcosa si ode, nel buio... Sono i respiri dei tuoi compagni
di ventura, singoli che formano un’entità distinta. Non sai che
pensare: siamo tutti vittime di ignoti carnefici o commensali alla stessa
tavola imbandita di oscurità?
Perché è un tavolo quello contro cui hai lievemente urtato.
Ed è una sedia quella in cui l’angelo ti invita, con dolce fermezza,
a sederti. Oramai non ha più senso ribellarsi. Il buio ha pervaso ogni
angolo della tua mente indaffarata e ha liberato pensieri di rilassato benessere.
La mano non ti abbandona mai e tu non cerchi di sfuggirle. Anzi, cominci a
desiderarla come elemento fondamentale del tuo nuovo microcosmo. È
la tua guida. È il tuo occhio dilatato nell’oscurità.
È la tua mano, ora, che viene invitata a prendere possesso dell’aria
che diviene tavolo e posate e piatti e bicchiere... Associ a sensazioni le
immagini degli oggetti corrispondenti ed è come se li vedessi. Questo
non è un semplice bicchiere: è un calice. Ma è l’idea
di un calice che stringi tra le tue mani, è l’ombra di platoniana
memoria. Ed ora ti pare di vedere il corpo dell’angelo, ma è
solo un’idea, è quello che vuoi che sia. Non importa che forma
abbia, nella realtà. Eppure, è realtà. Perché
è carne, ma è più spirito, ora. Non importa se sia una
bella donna, non importa accontentare per un istante l’egoismo edonistico
della vista che si adagia su un corpo.
L’angelo è bello perché ti è vicino. L’angelo
è bello perché ti dona calore. È la bellezza delle emozioni
che non conoscono il filtro della razionalità ed il suo greve fardello
di pregiudizi.
Qualcuno ride. Ecco, siamo davvero tanti bambini nella camera oscura, giocando
con le paure e gli istinti che impressionano pensieri erranti. C’è
sempre chi, nell’oscurità, trova il meglio di sé e coglie
l’occasione per farsi forte.
La riflessione si interrompe bruscamente. Un forte profumo invade le narici
ed il silenzio diviene prodromo di gioiosa intensità. È il momento
delle pietanze che prendono possesso dei piatti.
Confuse fragranze di molteplici ingredienti fanno sorgere il primo quesito:
cosa giace nel piatto di fronte a me? Potrebbe esserci del cavolfiore, che
detesto con tutto me stesso? No, non sembra. Ma cosa c’è nel
piatto? Potrei chiederlo al mio angelo, ma tanto non mi risponderebbe e rischierei
di passare per stupido. Non siamo poi così abituati a riconoscere l’essenza
delle cose dal loro profumo. Oramai, tutto passa dalla vista. Dove sopravvivono
i profumi? In quale remoto angolo della terra civilizzata si possono ancora
distinguere l’odore dei pomodori veraci o la delicatezza del basilico?
L’angelo mi invita a mangiare, indirizzando la mia mano verso la posata
e, successivamente, verso il piatto. Non importa capire cosa io stia mangiando.
Ciò che conta è che... è squisito. Istintivamente, appena
portata alla bocca la prima forchettata, mi sorprendo a chiudere gli occhi
ed a gustarmi la pietanza. Chiudo gli occhi ed è un rinchiudersi in
se stessi, per non lasciarsi sfuggire nulla, per non essere distratti.
Vorrei che l’angelo potesse mangiare con me, ma ora è un susseguirsi
di rumori e musica che creano un’atmosfera ancora più suggestiva.
Il cibo è convivialità. È vita. È un gioco, lo
so.
Vino. Non so come, ma sono certo che si tratta di vino rosso. È il
profumo, la corposità. Qualcuno declama le virtù della cena
appena iniziata. Altri se la godono in silenzio. Il concerto dettato dai movimenti
dapprima impacciati delle forchette dura qualche minuto.
Sono incapace di vedere, ma è come se vedessi. Eppure, qualche ingrediente
sfugge ancora alla mia mente e la curiosità aumenta. In molti si rendono
conto con quale, eccessiva, velocità affrontiamo ogni volta il pranzo
o la cena, talvolta addirittura davanti alla televisione. Non è più
un momento di incontro con le esigenze del nostro corpo, un atto di attenzione
nei suoi confronti. È solo una sosta per il rifornimento di carburante:
cinque minuti e via, si riparte.
Non so perché, ma è una continua sollecitazione, talvolta anche
violenta, di istanti di quotidianità della mia infanzia. La tavola
come piccola agorà in cui la famiglia scambia opinioni e racconta la
propria vita, colma di piccoli eventi che potrebbero perdersi e smarrire il
loro significato più reale, se non recepiti da orecchio attento.
È vero. Se non vedi, tutti gli altri sensi si acuiscono. E comprendi,
in una stanza buia, come gli occhi, di per sé, non possano essere altro
che strumenti dell’animo e della mente. E che, se questi si stancano
e perdono entusiasmo, i primi non potranno che registrare immagini senza valore.
La vista è il senso che più si presta al tradimento. Può
innescare ed alimentare la superficialità. Può allontanare dalla
verità.
Ti ricordi che sei all’interno della prestigiosa sede di un’antica
fondazione dedicata ai non vedenti. Sai che l’Istituto Cavazza non è
un istituto normale, perché chi lo dirige e lo anima è non vedente
ma ci vede benissimo e sa dove vuole colpire. Loro hanno voluto gli artisti
della Famiglia sfuggita. Sono loro che si godono il successo dell’iniziativa
tra tanti ospiti entusiasti. E se lo meritano tutto.
La mano del mio angelo si adagia sulle mie spalle. Penso alla carezza che
tanto mi allieta, ma ecco che inizia un massaggio, lieve e delicato. Forse,
è così che sarà il paradiso, se mai mi sarà consentito
di arrivarci...
E la cena prosegue, tra aromi, fragranze e rimembranze sonore della Sicilia,
madre terra della Famiglia Sfuggita. Tra loro, anche artisti di Bologna, divenuti
angeli dopo solo una settimana di laboratorio.
Ora, l’angelo mi invita a danzare. È un attimo di profondo imbarazzo:
non sono capace di ballare in piena luce, figuriamoci nell’oscurità...
Invece, mi scopro libero di lasciarmi andare, perché nessuno può
vedermi! È sempre stato il timore del giudizio altrui a frenarmi. Forse
sto ballando comunque con modalità da censura. Tuttavia, non credo
importi a nessuno, dato che più che una sala da ballo pare essere nel
bel mezzo di un autoscontri... Ed immagini immediatamente cosa deve significare
camminare per la città senza possibilità di difenderti dall’inciviltà,
ma anche camminare per casa o per altri ambienti. Ti domandi cosa deve significare
vivere senza occhi che vedano la realtà tangibile.
Eppure, ora che la cena è finita, ora che sono di nuovo sotto i festoni
di luce abbagliante nella strada trafficata, ora che il telefono vibra e mi
rendo conto che è tardi e domattina mi devo alzare presto... ora vorrei
ritornare in quella stanza buia e sedermi allo stesso tavolo, aspettando la
carezza del mio angelo, per richiudere gli occhi lasciandoli aperti, liberi
di sognare.