Il tesoro verde di Bologna è dietro i cancelli, in fondo a luminosi loggiati o ad angusti androni, protetto da portoni più o meno imponenti o da sgangherate porticine in vecchio legno consunto.
Spesso, anzi quasi sempre, inimmaginabile, perché, qualunque sia la sua dimensione, è un “patrimonio di famiglia”, è una realtà che esiste per il piacere, o anche per le necessità degli abitanti del palazzo o della casa, sia pur modesta o addirittura fatiscente.
Sono i giardini e gli orti che Bologna cela nel privato dei suoi edifici e delle sue abitazioni e che costituiscono una vera e propria ricchezza, sia estetica che botanica. Sono spazi che esprimono il gusto dei committenti, la perizia dei giardinieri e la poesia di chi li ha creati.
In occasione di una mostra dedicata a “Bologna centro storico”, nel 1970 fu rilevato da Renzo Renzi che “all’interno della struttura urbana, frutto dell’espansione rinascimentale e barocca, si apre un sistema di luminosi giardini e orti, arricchito da fondali pittorici ed architettonici, da esedre, grotte e nicchie, da statue, fontane e pozzi, da pavimentazioni dei percorsi pedonali eseguite con materiali diversi, dai tipici alti muri di divisione tra una proprietà e l’altra, da rigogliose essenze arboree esotiche e nostrane”.
Sotto i portichetti delle strade “popolari”, in fondo ai lunghi bui corridoi d’ingresso, ci sono invece gli orti creati al centro di due file di case a schiera che, all’esterno, si affacciano su vie parallele.
Due autorevoli testimonianze ci parlano ancora di questo “verde povero della Bologna minore”: Carlo Doglio si riferisce alle “case modeste, povere, che dentro che c’è sempre cammini di piante e d’erba (…) che è la ricchezza della Bologna minore scritta più che da Bacchelli da Giuseppe Raimondi, ritratta da Morandi più che dai secenteschi e settecenteschi”.
L’altro cantore del verde povero è Franco Cristofori che in “Bologna magra” (1963) descrive l’esiguo ma poetico spazio del cortile della casa ove abitava da bambino: “era un piccolo cortile macchiato di gerani, i fiori dei poveri, allineati lungo i muri nelle latte di conserva; il glicine tutto grappoli cilestrini, avvinghiato alla baracca del fabbro (…), c’era una rete metallica tutta arrugginita, con la roba stesa ad asciugare”.
Una descrizione intimista di un piccolo regno “verde” creato con modeste essenze botaniche e quasi sempre investito anche (se non soprattutto) della funzione di orto per le necessità alimentari degli abitanti: fazzoletti di pseudo aiuole, coltivati a prezzemolo, insalata, menta su cui si innalzavano le canne a sorreggere piante di pomodori, di piselli, di fagioli.
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Del resto, “l’albero cui tendevi la pargoletta mano, il verde melograno da’ bei vermigli fior” di carducciana memoria, dove cresceva? “Nel muto orto, solingo” di una casa della popolare via Broccaindosso.
È vero che isole verdi protette (spesso nascoste) da muretti o muraglioni o anche solo da recinzioni metalliche, si trovano in tutto il centro urbano bolognese come, ad esempio, nelle aree che sono o furono conventuali: l’orto di San Procolo, gli orti del Conservatorio del Baraccano, quelli di San Giacomo; quelli recenti del Corpus Domini, dei Servi, del SS Salvatore, i chiostri di San Francesco e quelli di San Mattia.
Ma qui ci piace ricordare, invitando a scoprire quel verde che bisogna faticare per “scovarlo”: quello che salta fuori inaspettatamente nella vecchia Bologna, fra le pietre e la calce, negli interstizi dei muri, fra gli intonaci scrostati. Sono erbe di quel tipo coraggioso che si accontenta di un seme portato dal vento e di qualche granello di terra, di un po’ di sole e pioggia. Sono, ovviamente, modeste graminacee, la parietaria o muraiola, qualche piccola composita. Ai margini degli orti “minori” (che noi amiamo molto) tra centro e periferia, non è difficile incontrare il rovo e la rosa canina, il biancospino, la vitalba e lo spino cervino, il lauro ceraso, il caprifoglio, il bosso. L’edera è di casa ovunque ma anche glicine e lillà fanno ricchi e delicatamente festosi i pur ridotti, ma curati, “tesori verdi” nei giardinetti e orti privati.
| Anche a questi spazi si riferiva l’illustre pittore bolognese Nino Bertocchi quando, nel 1937, sottolineava “l’antica e morale consuetudine dei giardini interni” nelle dimore bolognesi, considerandole un completamento e un alleggerimento della seriosità delle nostre architetture.
Si può dire, dunque, che non ci sia strada del centro bolognese che non contrappunti dove l’eleganza dove la modestia delle sue facciate con un “cuore verde” retrostante, più o meno ampio, prestigioso o dimesso, perché è chiaro che fra i privati non tutti, anzi relativamente assai pochi, disponevano dei mezzi e degli spazi per costruirsi giardini rispondenti ai precetti e ai canoni forniti dal bolognesi Pier de’ Crescenzi (1230-1321) che, nel suo trattato di agricoltura Ruralium commodorum libri XII, dettò chiare e dettagliate regole per la creazione di giardini domestici in città e in villa, indicandone le parti: il verziere, per le essenze medicinali; il viridario, per dare spazio agli animali selvatici sotto cipressi, ulivi, allori e pini; il pomario con le piante da frutto, le peschiere e le uccelliere, prati di erba e canaletti di irrigazione.
Insospettati e sorprendenti gli “interni verdi” lungo strada Maggiore, Santo Stefano, Castiglione, Saragozza, Galliera, ma anche lungo le vie Solferino, Orfeo, Mirasole, Santa Caterina si rivelano come un autentico documento globale di una cultura, di una civiltà dell’abitare.
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