Il 19 giugno 2021, nella rubrica che il professor Umberto Galimberti tiene all’interno dell’allegato D del quotidiano la Repubblica, un lettore si domandava e chiedeva lumi al filosofo del perché la sindrome di Stendhal - fenomeno descritto dallo scrittore francese nel suo libro del 1817 Roma, Napoli, Firenze (edito da Bompiani) e associata alla visione di un quadro, «non sia mai stata descritta per l’ascolto di un brano musicale».
Col suo consueto rigore, Galimberti, partendo dalla descrizione della sindrome fatta da Stendhal e «caratterizzata da tachicardia, vertigini, capogiro, confusione mentale che lo aveva afflitto al cospetto di opere d’arte», si allargava alla citazione del pensiero di grandi filosofi e letterati e riportava l’ipotesi delle neuroscienze in merito ai neuroni specchio, che potrebbero attivare nell’osservatore «gli stessi stati emozionali [….] dell’autore dell’opera d’arte». Conferiva le medesime caratteristiche e dignità delle opere d’arte alla musica, «che non esaurisce il suo senso in ciò che si sente ma rinvia a quell’indicibile a cui rimanda ciò che la musica dice».Il professore chiudeva, infine, la sua risposta parlando della «presenza dell’inquietante che, come tratto tipico della bellezza, si annuncia in ogni opera d’arte. E solo chi non ha occhi per la bellezza non lo avverte».
Confesso di avere provato un forte senso di smarrimento, come se mi venisse a mancare la terra sotto i piedi. Non ho potuto fare a meno di sentirmi una pur piccola parte in causa di quei fenomeni. La mia memoria è andata a scandagliare il mio vissuto, ma, allo stesso tempo, mi ha confortato l’esistenza di un presente che non ha mai cessato di testimoniare il perdurare di sensazioni e consapevolezze richiamatemi da quella lettura.
È di me stesso che, alla fine, mi provo a parlare, pur non essendo certo che le mie soggettive esperienze e/o percezioni siano associabili alla sindrome di Stendhal.
Come che sia, da una parte sono stato ricondotto alla stagione lirica 1974 - 1975 del Teatro Comunale di Bologna, dall’altra provo a riferire di un dato che si ripete costantemente all’ascolto di uno specifico brano musicale.
Nel primo caso mi trovai di fronte all’iniziale incontro con Le Nozze di Figaro di Mozart, musicista che amavo sin da bambino. Alla prima dell’opera ero situato in un palco all’ultimo ordine e adiacente al palcoscenico, ospite di alcuni amici dell’Istituto dei Ciechi Cavazza di Bologna, presso cui lavoravo e che sta ora ospitando questo mio ricordo. Era pressoché impossibile vedere quanto accadeva sulla scena. Mi sporsi invano dal parapetto per la quasi intera durata della serata, facendomi forza con le braccia, in posizione scomodissima. Alla fine ero spossato ma commosso e pronto a ripetere immediatamente l’esperienza. Ricordo che abbracciai con trasporto le persone che erano in mia compagnia, ringraziandole per il dono fattomi. Nel corso di quella stagione e di quella successiva, andai ad assistere, seduto in punti diversi del teatro, ad una decina di repliche del capolavoro mozartiano, ammaliato sempre più dalla “verità” psicologica di quella commedia in musica. In una circostanza, e per un tempo che non riesco a quantificare, realizzai che non stavo più sentendo la musica. Tutto era così reale e connaturato che avevo la precisa sensazione di assistere ad una rappresentazione della stagione teatrale in prosa, in cui si stava attuando il miracolo di una fusione perfetta di differenti (ma uguali) elementi. Se mi è concesso, qualcosa che aveva a che fare con la consustanzialità. Non lo dimenticherò mai e non posso fare a meno di pensare che quelle condizioni siano irripetibili. Le banali regie e scenografie dei nostri giorni, che falsificano la storia volgendo tutto al presente, rendono irrealizzabile ogni potenziale raggiungimento di tale unità spirituale.
La seconda realtà di cui vorrei parlare va ad investire un genere musicale del tutto diverso. La natura di questa musica, il jazz, portatrice di esperienze uniche e irripetibili, potrebbe far apparire contraddittorio quanto sto per scrivere. La possibilità di catturare attraverso il disco qualsiasi esperienza musicale sarebbe vana e inutile se il materiale fissato per sempre non avesse in sé la forza di renderlo insostituibile, irrinunciabile, unico, desiderabile come un amore, pronto a ripetersi sempre diverso pur se uguale e non da accantonare, come spesso capita, dopo un unico ascolto. Il musicista che ha raggiunto tale vetta – ne sono certo, fautore consapevole di questo fenomeno straordinario – ritengo che sia John Coltrane con una delle sue – stando a Wikipedia – al momento note quarantacinque interpretazioni immortalate su disco di un popolare valzer di Rodgers e Hammerstein, My Favorite Things. Solo una, però ha saputo catturarmi così fortemente, quella registrata al Festival di Newport nel 1963. Non sono un musicista, anche se ho qualche conoscenza in materia avendo compiuto lontanissimi, parziali e mal fatti studi pianistici. Ma non è necessario disporre di nozioni teoriche per essere soggiogati fino a tremarne da un turbinio incessante in cui senti di trovarti di fronte a un evento in cui la totale padronanza e maestria tecnica è messa costantemente e compiutamente al servizio di una sfida emozionale con difficoltà esprimibile a parole. Anche qui – dunque - due elementi si fondono in una vincente forma creativa mai toccata in precedenza e non più realizzata in seguito con l’adesione di Coltrane al linguaggio del free jazz dei suoi ultimi anni di vita. Quella musica non ti dà tregua, non ti lascia scampo, t’impedisce di negare che esista la speranza della felicità, di una forza devastante ma benefica e rigenerante. Il musicista tocca qui questo culmine grazie anche al tempo fulmineo mai adottato in precedenza. Sei subito investito da una valanga che ti toglierà il respiro, ma che riesci a controllare e a seguire. Ovviamente, è Il musicista che è avvolto in quella morsa, ma tu finisci col confonderti con lui. C’è un punto preciso in cui il sassofonista è immerso così fortemente nella trance creativa che, se non l’avesse tenuta sotto controllo e avesse osato andare oltre anche di un nulla, probabilmente sarebbe morto soffocato.
L’allora direttore della rivista Musica Jazz, l’avvocato Arrigo Polillo, recensendo quel disco postumo affermò che quella musica si poteva solo subire. Ripensando ora quel giudizio entusiasta, da cui si arguiva che da tale esperienza lui stesso era uscito tramortito, non riesco a concordare con lui. Infatti, ogni volta che ascolto quel My Favorite Things mi sento parte integrante con esso, lo rivivo come fossi io a suonarlo, sento che quello slancio e quel vigore sono frutto di un’utopica (sarei pronto ad usare anche il termine “eroismo”) ma benefica forza che sfida l’impossibilità di esaurire la totalità delle combinazioni e della variazioni in musica. A mio giudizio e a mia conoscenza si tratta dell’uragano più inarrestabile della storia della Musica. Se proprio devo fare un paragone, posso solo risalire a cinquanta anni prima, quando Igor Stravinskj – con un brano musicale totalmente altro – sconvolse il Novecento con Le Sacre du Printemps. Forse la definizione di “secolo breve”, applicata al Novecento, trova anche in questo caso la sua motivata attuazione. Ricordo, con commozione e orgoglio, di aver fatto conoscere quel disco ad uno dei ragazzi che erano a teatro alla prima dell’opera mozartiana e di avere visto dipinta nel suo volto quella stessa mia incredula emozione.