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Collocazione attuale:
Tecnica e dimensioni dell'opera originale:
Tecnica e dimensioni della traduzione plastica:
Soggetto iconografico:
L’iconografia di Atalanta e Ippomene, per come oggi la conosciamo, ha origini classiche che risalgono molto probabilmente a Euripide, drammaturgo greco vissuto nel V secolo a.C., ma è dal Decimo libro delle Metamorfosi del poeta latino Ovidio che traiamo la narrazione più toccante di questo mito in cui si racconta la storia della fanciulla Atalanta, figlia di Iasio, re dell’Arcadia, e di Climene, e della sua unione con il giovane temerario Ippomene. Abbandonata dal Padre sul monte Pelio, perché indesiderata rispetto a un figlio maschio, e allevata da un’orsa, Atalanta cresce comunque bellissima e talentuosa. Abile cacciatrice, si distingue nella corsa, arte in cui eccelle, diventando secondo la leggenda persino più veloce dei Centauri. Riconosciuta un giorno dal terribile padre che la vorrebbe dare in sposa, Atalanta, conscia delle sue doti, e divenuta necessariamente indipendente, accetta di concedersi solo a chi la batta in una gara di corsa, con la cruda condizione di condannare a morte i pretendenti da lei sconfitti, poiché un oracolo le aveva predetto che il giorno in cui avesse preso marito, avrebbe perduto tutte le sue abilità. In questo scenario, minaccioso e cupo, emerge la semplice eppur eroica figura di Ippomene. Il giovane è profondamente innamorato di Atalanta e decide di affrontare la rischiosa prova chiedendo aiuto a Venere. La Dea accoglie la preghiera di Ippomene e gli dona tre pomi d’oro consigliandogli di farli cadere a uno a uno, durante la competizione, allo scopo di rallentare la velocità della ninfa per poi vincerla e dunque prenderla in sposa. Tutto sembra volgere al meglio quando, malgrado la velocità imbattibile Atalanta, cedendo alla tentazione di raccogliere i pomi, si vede superata dal giovane Ippomene e pur preoccupata d’essere vinta, prova inaspettato sollievo all’idea che un simile coraggioso pretendente non debba morire per lei. Il mito descrive il coronamento di un amore sbocciato a prima vista e in parte favorito dagli dèi; tuttavia, la parte conclusiva del racconto è tragica e impressionante. Atalanta e Ippomene, infatti, vivono felicemente e pienamente il loro amore coniugale ma un giorno, entrati in un tempio dedicato a Cibele, lo profanano compiendo atto amoroso impudico e per questo incorrono nelle ire di Afrodite che li punisce trasformandoli in leoni, animali che la tradizione classica riteneva non potessero accoppiarsi. La metafora del sacrilegio passionale sanzionato è complessa e presenta interessanti declinazioni in chiave morale ma anche psicologica. Atalanta e Ippomene, e l’espressione di un’incontenibile pulsione carnale, rappresenterebbero infatti i rischi in cui si incorre se privi di freni inibitori in amore. Va considerato anche come, nella figura di Atalanta, in tralice si possa leggere, sempre in chiave psicologica, una forma di paura del dono di sé, dettata in tal caso dal trauma subito per l’originario rifiuto del padre e la possibilità di trasformare tale trauma in un atto di amore liberatorio e superiore a ogni esitazione e inibizione.
Descrizione dell’opera:
Per rendere tangibile l’idea di una bellezza estetica percepibile al tatto, la traduzione tridimensionale in bassorilievo prospettico del capolavoro di Guido Reni offre alle persone non vedenti e ipovedenti una visione sensoriale e intellettuale di forme e contenuti del dipinto. Con un complesso lavoro di traduzione dei valori pittorici in valori plastici, il bassorilievo prospettico creato è il risultato di una trasposizione plastica dell’opera, nel rispetto dei suoi valori estetici di segno, forma, geometria compositiva, dinamismo e spazialità. Il manufatto, realizzato in scala ridotta rispetto all’originale che misura 192 centimetri di altezza per 264 di lunghezza, ha dimensioni di centimetri 57,5 di altezza per 75 di lunghezza e 10 di profondità. Dopo avere fatto scorrere le mani lungo lo sviluppo perimetrale del rilievo, è possibile iniziare la lettura tattile sincronica e bimanuale del corpo di Atalanta, posto a sinistra nella composizione e, simultaneamente, del corpo di Ippomene, visibile in primo piano, e posto sulla destra della scena. Al centro della composizione risulta chiaro il lirico incrocio delle gambe dei giovani. Si tratta rispettivamente dell’apparente sovrapporsi, durante la rapida corsa di Ippomene e la breve sosta di Atalanta, della gamba sinistra della ninfa e della destra del nudo virile. Con questa esplorazione si coglierà la sinuosità del corpo della ninfa raffigurata china, intenta ad afferrare con la mano destra uno dei tre pomi, con la sinistra a conservare nel palmo il pomo precedentemente raccolto. Spostandosi a sinistra del lettore, sullo sfondo della scena ambientata in un paesaggio notturno e brullo, ai lati esterni dei personaggi, si scorge il pubblico, mentre assiste alla competizione. L’esplorazione dovrà muovere dal centro della scena: si suggerisce pertanto al lettore di seguire con la mano sinistra il profilo del corpo, del braccio sinistro, della nuca, del capo e del braccio destro della ninfa, fino a incontrare il contatto tra mano destra di Atalanta e suolo, dunque l’elegante gesto della raccolta del pomo, mentre con la mano destra il lettore dovrebbe simultaneamente percepire la rapida fuga di Ippomene, la cui gamba destra tesa orienta alla cognizione dello slancio in avanti del busto, e alla percezione estetica del dinamismo culminante nel superamento di Atalanta, per effetto dello scatto in corso del giovane. La presenza del suolo pietroso e il cielo nuvoloso, i toni che virano dal bruno al blu profondo, acuiscono la suggestione dell’atmosfera di sospensione e la grazia infinita dei due corpi dall’incarnato eburneo. La linea d’orizzonte che divide terra e cielo, privilegiando di poco la vastità del terreno rispetto a quella del firmamento, scandisce la direzione di corsa leggibile secondo la tradizione occidentale da sinistra a destra. Per quanto concerne il movimento del corpo di Ippomene, infatti, lo spostamento lineare va da sinistra a destra ma ad un’attenta analisi ottica e aptica, risulterà inequivocabile, anche al tatto, come la direzione di marcia venga per un istante interrotta e smentita dalla breve retromarcia della ninfa che, per raccogliere il pomo, si pone speculare rispetto a Ippomene e dunque compie una vera e propria inversione di marcia, da destra verso sinistra. I movimenti delle braccia, delle mani, e persino delle dita del lettore, dovranno, se possibile, compiere azioni aeree e lievi, a sfioramento delle superfici e delle modulazioni dei volumi, al fine di preservare, della scena, anche l’idea di levità.
Dalla lettura dei versi tratti dalle Metamorfosi di Ovidio, si avverte come sia commovente la nascita dell’amore tra i due giovani e quanto corrispondente ai versi del poeta latino sia la restituzione pittorica offertaci da Guido Reni. La potente interdipendenza tra i due corpi, femminile e maschile, colti rispettivamente nella grazia di Atalanta e nella tensione muscolare e tendinea di Ippomene, qui raffigurato con tratti efebici, rafforza tanto nell’osservatore vedente, quanto nel lettore non vedente e ipovedente, l’intuizione della velocità e dello sforzo fisico presenti in questa corsa che, indotta da un sentimento d’amore, si consuma sul crinale tra vita e morte. Atalanta ha un corpo tornito e un velo trasparente, leggero e azzurrato, ruota intorno alle generose forme, seguendo la curva gentile del busto, mentre la flessione del suo nudo, resa visibile dal manifesto gesto di raccogliere il secondo pomo d’oro, pare delicatamente accompagnata dal dinamismo della bionda capigliatura raccolta in una coda di capelli che si sovrappone al manto azzurro, quasi fondendosi con esso. Ippomene che la supera repentinamente volge lo sguardo all’indietro, come a sincerarsi della bontà dello stratagemma escogitato da Venere, la quale, narra Ovidio, alla caduta del terzo pomo aumenterà strumentalmente il peso specifico del frutto d’oro, per assicurare il rallentamento definitivo della corsa di Atalanta. I volti dei giovani sono gentili, e le loro espressioni, concentrate, si venano di lieve stupore. Il braccio destro di Ippomene, teso, risulta parallelo alla tensione della gamba destra, mentre l’attrito tra corpo e aria genera il movimento del drappo rosso che disegna nel vuoto una serpentina e artatamente nasconde la nudità del giovane. Le linee diagonali che possiamo leggere al tatto mentre consideriamo la velocità dei due competitori, ci permettono di cogliere la grandezza della pittura di Guido Reni e la forza evocativa di quei gesti e posture così eleganti, persino struggenti. Lo spostamento del peso, sia in Atalanta che in Ippomene, attesta una ricerca di equilibrio. In lei il peso del corpo si sposta sul piede destro che, in appoggio al suolo, diventa perno; in lui è il piede sinistro in appoggio a fare da spinta propulsiva alla falcata. Sospese e incrociate le gambe, sinistra di Atalanta e destra di Ippomene, incarnano visibilmente e tangibilmente la metafora di un precario equilibrio. Atalanta, etimologicamente, significa proprio colei che sta in equilibrio. Ed è forse su questa finissima corrispondenza tra parola e immagine che tutti noi, nella conoscenza del mito decantato nei versi poetici e rappresentato in pittura, ci muoviamo sul limen: soglia e confine tra audacia e ritrosia, dono e ritrazione, a riconfermare la potenza delle passioni e la forza inesauribile della grazia, anche nel disciplinare le pulsioni.
Cenni sull'artista:
Guido Reni nacque a Bologna, nell’attuale Palazzo Ariosti di via San Felice 3, da Daniele, musicista e maestro della Cappella di San Petronio, e da Ginevra Pozzi e fu battezzato il 7 novembre nella chiesa di San Pietro. L’artista, considerato uno dei massimi esponenti del Seicento italiano, è tra i più celebrati pittori bolognesi: di lui resta uno splendido ritratto, dipinto dall’allievo Simone Cantarini, ospitato presso la Pinacoteca Nazionale di Bologna. Nel 1584, secondo quanto afferma lo storico Carlo Cesare Malvasia, che conobbe in vita il pittore, abbandonò gli studi di musica, a cui era stato avviato, per entrare nella già nota bottega bolognese del pittore fiammingo Denijs Calvaert, amico del padre. Negli anni di apprendistato ha per compagni pittori destinati a un grande successo come Francesco Albani e Domenichino: divenuto seguace dell’Accademia carraccesca, pur muovendo dal Manierismo, studia Raffaello, del quale copia più volte l’Estasi di Santa Cecilia, e il disegno di grandi incisori nordici, quali Albrecht Dürer. Morto il padre, nel 1594, lascia la bottega del Calvaert per aderire all’Accademia del Naturale, scuola di pittura fondata dai Carracci nel 1582, che nel 1599 diverrà Accademia degli Incamminati. L’artista, da questo momento, collabora ai più significativi progetti decorativi nella città di Bologna, ove fisserà i canoni di una nuova visione dell’eloquenza dei gesti, dell’espressività e comunicabilità dei soggetti religiosi, fino a pervenire a una concezione colta della classicità, in cui il richiamo agli antichi maestri si tradurrà in una costante ricerca della bellezza perfetta dei modelli ideali. In tutte le sue opere, Guido Reni esprime una visione calma, aulica, simmetrica e bilanciata nella composizione di linee, volumi e colori, che stempera asperità e conduce all’armonia anche in presenza del dramma. Il trasferimento a Roma segna, per fortuna critica e incarichi ricevuti, la sua consacrazione: nel 1601 è certamente nella capitale e viaggia in seguito da Roma a Bologna e da Roma a Loreto. La sua ricerca del bello ideale, desunto dal classicismo cinquecentesco di Raffaello e mediato dallo studio dei Carracci oltre che dall’indagine sul vero di Caravaggio, lo induce a fondere gli elementi specifici di ciascuna poetica, fino a trovare un proprio autonomo linguaggio, fatto di mestizia e di solenne “decoro”. La sua fama è così consolidata che nel 1608 papa Paolo V gli affida la decorazione di due sale dei Palazzi Vaticani, la Sala delle Nozze Aldobrandine e la Sala delle Dame. Il 25 settembre 1609 riceve il primo acconto per gli affreschi della Cappella Paolina in Santa Maria Maggiore, che interrompe alla fine del 1610, sembra per contrasti con l’amministrazione papale. Torna così a Bologna, dove esegue dipinti di fondamentale importanza quali La strage degli innocenti, il Sansone vittorioso e il severo e intensissimo Ritratto della madre di cui ci accingiamo a fornire la descrizione. Raggiunge di nuovo Roma nel 1612, per terminare gli affreschi in Santa Maria Maggiore, e il cardinale Scipione Borghese gli commissiona la realizzazione dell’affresco dell’Aurora, destinato al Casino nel Parco del suo Palazzo, ora Rospigliosi Pallavicini. Dopo un breve soggiorno a Napoli è ancora a Bologna, dove inizia ad affrescare l’abside della Chiesa di San Domenico; poi a Roma nel 1614 per tornare definitivamente a Bologna nell’ottobre dello stesso anno. Nel giugno del 1617 è chiamato a Mantova per eseguire le decorazioni in Palazzo Ducale, ma rifiuta a causa delle infermità provocate dalla pittura a fresco: in alternativa, per il Duca esegue quattro tele raffiguranti le Fatiche di Ercole. Nel maggio del 1622 è a Napoli, dove affresca la Cappella del Tesoro di San Gennaro nel Duomo ma in disaccordo sul compenso, riparte alla volta di Roma, dopo aver dipinto tre tele per la Chiesa di San Filippo Neri: la celeberrima tela napoletana Atalanta e Ippomene, di cui abbiamo trattato iconografia, valore estetico e composizione, nel Seicento figura tra le proprietà dei Gonzaga a Mantova. Nel 1630, superata la tremenda peste, il Senato bolognese gli commissiona la pala votiva dedicata alla Madonna col Bambino e Santi, criticata dai contemporanei per l’avvicinarsi del Reni alla sua seconda maniera, ove la tavolozza è schiarita al punto che l’artista intride d’argento le tonalità, virandole in direzione di colori freddi, azzurrati e rosati, con effetti di lievità e di sfumature in cui la materia pittorica sembra impalpabile. Negli ultimi anni della sua brillante carriera, a partire dal 1635, Guido Reni dipinge in modo più rapido, con pennellate ampie che però il Malvasia definisce “incompiute” poiché veloci e sommarie, secondo un’intenzione che la critica del Novecento ha invece attribuito alla consapevolezza stilistica ed estetica del suo ultimo periodo pittorico. Per il suo biografo invece si tratta di un’esigenza di guadagno, che lo spinge ad una produzione frettolosa e ad accettare condizioni di lavoro disagevoli pur di raccogliere denaro, e sembra che in questa ultima fase Guido Reni abbia sofferto molto, forse anche affetto da depressione. Il 6 agosto del 1642 il Maestro è “colto da febbri” che lo portano alla morte il 18 agosto: il corpo verrà esposto con indosso la veste da Cappuccino e sepolto nella cappella Guidotti della Chiesa di San Domenico.