Qualunque museo internazionale dedito a un unico settore specifico della produzione artistica, ospitando al suo interno una mostra dedicata a Pablo Picasso, non può che aumentare il proprio prestigio. Tale è la poliedrica grandezza di colui che è considerato il più influente e rappresentativo tra gli artisti del Novecento, che quello che nel titolo dell’attuale esposizione del MIC è presentato come un conflitto, non poteva che essere vinto a priori: La sfida della ceramica sarà visitabile al Museo Internazionale della Ceramica fino al 12 aprile 2020. Leggiamo dal comunicato stampa che «Nella mostra faentina verranno analizzate le fonti di ispirazione di Picasso, proprio a partire dai manufatti presenti nelle collezioni del MIC.
La ceramica classica (con le figure nere e rosse), i buccheri etruschi, la ceramica popolare spagnola e italiana, il graffito italiano quattrocentesco, l’iconografia dell’area mediterranea (pesci, animali fantastici, gufi e uccelli) e le terrecotte delle culture preispaniche che saranno esposte in un fertile e inedito dialogo con le ceramiche di Picasso.». Ma la fonte d’ispirazione principale risiedeva probabilmente nell’urgenza creativa mai pienamente appagata che animava lo spirito dell’artista di Malaga. In altri termini si potrebbe forse dire che Picasso è inconfondibilmente sempre Picasso, quasi che il filosofico principio di non contraddizione trovi in lui la massima evidenza. È a se stesso che l’artista si rifà quando va ad approfondire e «affrontare una molteplicità di interessi […] e problematiche di cui si era occupato sin dalla fase cubista […]». Con le geniali soluzioni adottate nel dipingere volti femminili utilizzando frammenti di mattone (cat. 7, 8, 10), Picasso riesce a dare continuità ai tratti del viso, innestandoli in forme ostiche e apparentemente non piegabili ai suoi progetti. Come pure è innegabilmente picassiana la costante presenza dell’elemento antropomorfo che, ad esempio, si disvela nella maestria dell’artista nel rappresentare la sensualità femminile. Nelle “Quattro stagioni” (cat. 16), terracotta graffite e dipinta a ingobbi risalente al maggio 1950 e donata da Picasso al MIC di Faenza nell’anno successivo, il vaso e il corpo della donna sembrano una cosa sola. Un omaggio alla fertilità femminile si trova esplicito nel Vaso: “Donna con anfora” (cat. 1); ma tanti altri vasi, anfore o bottiglie sono plasmati dalla fantasia dell’artista a rappresentare sembianze umane. Persino nelle nature morte, Picasso può dare l’impressione di voler giocare nascostamente con ambivalenze antropomorfe: se osserviamo il Piatto con coltello, forchetta, mela tagliata a metà e bucce (cat. 50) quel frutto tagliato a metà e la posata a sinistra non nascondono forse un volto e un avambraccio terminante in una mano? Se andiamo a raffrontare tutte le fonti indicate poco sopra con la produzione di Picasso, troviamo che in ogni campo l’artista lascia un’inequivocabile impronta di sé.
A partire dal 1947, l’artista spagnolo, nell’atelier Madoura di Vallauris, non distante da Cannes, si dedicò assiduamente alla ceramica e si stima che fra quell’anno e il 1971 sia arrivato a produrre fra i 3500 e i 3800 pezzi circa. Consapevole di prolungare la tradizione mediterranea, Picasso in una circostanza ebbe ad esclamare «Qui già facevano queste cose migliaia d’anni fa.». Non si può, ovviamente, pensare ad un’esplicita ammissione di appropriazione indebita del linguaggio altrui. Rovesciando le parole precedenti bisogna, invece, affermare che, quando Picasso ripropone i modelli dell’antichità, si constata e si attua la permanenza nel tempo e nello spazio di quelle forme originali. Picasso, sempre in bilico fra modernità e antichità, era la testimonianza vivente che ci sono delle tracce indelebili presenti nell’uomo dalla notte dei tempi. La sua arte sta nella profonda capacità di ricongiungersi con quei modelli atavici dando, allo stesso tempo, luogo alla modernità. La differenza fondamentale fra le ceramiche dell’artista di Malaga e quelle dell’antichità sta nel fatto che quelle dei primordi erano oggetti pratici da utilizzare nella quotidianità o da impiegare come simboli della fertilità o nell’ambito del culto votivo, mentre quelli contemporanei sono unicamente pensati come realizzazioni di un inarrestabile e vulcanico “progetto Picasso”. Tenuto in debito conto tale tratto che dall’uomo Picasso passa costantemente all’artista, l’originalità e la specificità della mostra faentina sta nel dato che essa è l’unica dedicata esclusivamente alla ceramica fra le settanta previste – e siamo già arrivati alla programmazione di oltre 45 di esse – nell’ambito del progetto Picasso Mediterraneo. Tale disegno mira ad esplorare e mettere a disposizione di tutti i risultati a cui gli studi su Picasso sono giunti in relazione alle tracce lasciate dall’artista spagnolo nei paesi che si affacciano sul Mediterraneo. In prestito dal Musée National Picasso – Paris sono giunte a Faenza 50 ceramiche, in perfetto «dialogo con le ceramiche classiche popolari, sia spagnole che italiane».
I contatti fra Picasso e Faenza ebbero inizio nel 1948 con la donazione della “Colomba della Pace”, «quale sostegno alla ricostruzione del museo, dopo il bombardamento alleato del maggio 1944». La presente è la terza mostra ospitata nella città romagnola e incentrata sull’artista di Malaga, dopo quelle del 1960 e del 1989. Ampia documentazione di questo importante sodalizio – fra cui fotografie mai pubblicate in precedenza e un documentario girato da Luciano Emmer nel 1954 – sono visibili oggi al MIC. La mostra è a cura di Salvador Haro Gonzáles e di Harald Theil, con la collaborazione di Claudia Casali.