Autore:
Datazione:
Collocazione attuale:
Tecnica e dimensioni dell'opera originale:
Tecnica e dimensioni della traduzione plastica:
Soggetto iconografico:
EDITORE: Tsutaya Jūzaburō FIRMA: Utamaro ga SIGILLO DELL’EDITORE: Kōshōdō SIGILLO DEL CENSORE: Kiwame La rappresentazione delle beltà femminili appartiene alla tradizione del genere Ukiyo-e e risponde al pensiero giapponese del tardo periodo Edo, ovvero a quel clima di rilettura culturale di antichi principi filosofici e mistici che portò l’Ottocento nipponico a reinterpretare i fondamenti filosofici buddhisti del Mondo fluttuante. Il genere Ukiyo-e fece la sua comparsa nella stampa giapponese già verso la fine del Seicento ma il vocabolo ha origini molto antiche: inizialmente implicava una significazione buddhista negativa, secondo la quale la vita (yo) sulla terra sarebbe tediosa (uki) e soprattutto transitoria, impermanente in tutti i suoi aspetti fisici, in contrasto con la vita eterna promessa dai Buddha, secondo una concezione metafisica ed escatologica dell’esistenza. Questa visione pessimistica si addolcì progressivamente in un’epoca più permissiva, estetizzante e per alcuni aspetti edonistica, quale fu l’epoca Edo (1615-1867). Il vocabolo uki venne indicato da un ideogramma cinese differente, a rappresentare il significato di “fluttuante”. Con questa nuova significazione Ukiyo divenne un’esortazione a vivere, quindi ad assaporare il più possibile l’esistenza nella sua transitorietà, immergendosi gioiosamente nel suo flusso per accettarne serenamente l’instabilità. La celebrazione della ricerca del piacere, mai privata di un’etica in cui forma e sostanza tendono a corrispondere, è però un’inevitabile presa di coscienza della finitezza umana e malgrado non si veni di malinconia, ha in sé la delicata poesia dell’inizio e fine delle cose. Anche per questo l’Ukiyo-e, composto da tre grandi categorie di rappresentazioni - il paesaggio inteso come trascrizione dell’universalità di Natura, il mondo della bellezza femminile (bijin-ga) e la rappresentazione degli attori del teatro kabuki - divenne una forma d’arte interiorizzata dagli artisti, curata dai mecenati e destinata a un pubblico relativamente vasto, di estrazione borghese, prospero e incline al mondano, ma mai dimentico del sentimento che accompagna il piacere. L’opera che analizzeremo rientra nella categoria bijinga e non va dimenticato che il principale artista nella realizzazione di Beltà dell’Ukiyo-e fu in assoluto Kitagawa Utamaro. Si tratta certamente di immagini di beltà dai lineamenti standardizzati, poiché ricondotti a una stilizzazione la cui ragione dimora nell’idealizzazione dei valori estetici del femminile. In questo “canone” rientrano principi al contempo di grazia e solennità, sintetizzati nelle rappresentazioni di donne realmente esistite ma sottratte, nella loro immagine e bellezza, alla pura contingenza del reale. Infatti, sin dai tempi antichi in Giappone non si affermò alcun interesse nell’esprimere specificatamente le diversità individuali dei volti. Durante il periodo Edo, anche nel romanzo popolare si poteva descrivere minuziosamente e nel dettaglio una veste, ma difficilmente ci si soffermava sulla peculiarità dei lineamenti: frasi come “domestica di estrema bellezza” o “uomo dai colori splendidi”, possono in un certo senso esemplificare l’attitudine a non focalizzare l’attenzione sui tratti somatici, piuttosto a leggere la bellezza in una visione armonica di insieme, rinforzata da accenni a dettagli solo apparentemente marginali. L’Ukiyo-e ha avuto e a tutt’oggi mantiene una funzione storica importante, perché comunica le diverse forme di interiorizzazione e espressione dell’impermanenza delle cose, ma per quanto legato a precise realtà epocali non perde mai l’inclinazione al sogno e alla passione. Tutte le immagini di questo genere artistico si fondano sul “modello” dettato dal singolo artista e mirano al raggiungimento di una bellezza stilizzata. Tale tendenza si coglie prevalentemente nelle rappresentazioni degli esseri umani, quindi nei due generi principali dei ritratti di attori del kabuki e di beltà femminili.
Descrizione dell’opera:
Insieme a Ohisa della Takashimaya e Tomimoto Toyohina, Okita era una delle modelle preferite di Utamaro. Okita, famosa per la sua bellezza, lavorava come inserviente in una casa da tè nei pressi dell’ingresso orientale del tempio di Kannon ad Asakusa, una prova di stampa che la ritrae con Ohisa e Toyohina porta una scritta a mano secondo la quale sarebbe andata poi a vivere a Osaka. La fanciulla, che si sta riflettendo in uno specchio a figura intera (sugatami), si è avvicinata per controllare la propria immagine e compostezza, mentre si aggiusta l’archetto di sostegno dell’acconciatura (binshashi). Lo sfondo in mica e la semplice veste grigio azzurro a righe esaltano il biancore del volto e del petto della giovane, contrasto ulteriormente rafforzato dalla cornice nera dello specchio, dal nero colletto della veste e dalla massa di capelli. Il tutto contribuisce a valorizzare il suo sguardo e il suo sorriso mentre l’espressione del volto, composta e aggraziata, sembra naturalmente e inevitabilmente compiaciuta da tanta bellezza. Si consiglia di applicare, sulla traduzione tridimensionale della stampa, una lettura bimanuale che permetta di leggere contemporaneamente, con la destra l’acconciatura di Okita e con la sinistra il delicato e morbido profilo fino a percepire la profondità del sottosquadro, che bene delinea lo spazio che si frappone tra il volto reale e la sua immagine riflessa nello specchio. Le mani possono poi congiungersi a percepire la spalla sinistra di Okita e la veste rigata, qui rappresentata con una texture a incavo, funzionale a far percepire il disegno lineare e geometrico della stoffa del kimono. Potrebbe seguire successivamente la lettura bimanuale della cornice dello specchio e della superficie piatta in plexiglass, removibile, che simula quella dello specchio e ad essa allude. Una volta rimossa tale superficie trasparente, è possibile procedere in forma bimanuale nella lettura del volto della giovane, ridisegnandone i contorni e i lineamenti del viso, fino a risalire sul capo per comprendere la complessa struttura dell’acconciatura. Si scende poi sulla linea delle spalle per leggere il colletto del Kimono, l’incrocio dei suoi bordi sul petto, e infine il braccio destro sollevato, che però nell’immagine riflessa specularmene pare il sinistro, con la mano minuta tesa a toccare, tra pollice e indice, l’estremità dell’acconciatura sul lato destro del volto di Okita, così da apparire nello specchio ancora alla sua sinistra, ma a destra per l’osservatore. Una volta lette le due effigi, distinte ma in realtà riconducibili a una unica identità e a un’unica postura osservata da due punti di vista diversi, si consiglia di leggere sincronicamente l’andamento curvilineo dell’acconciatura sulla nuca di Okita che si specchia, unitamente alla curvatura dei capelli abilmente raccolti sopra la fronte, di Okita riflessa. Con lo stesso principio si suggerisce di individuare, laddove possibile, linee corrispondenti agli stessi tratti del volto e del corpo della figura, che permettano al lettore di riconoscere corrispondenze posturali attraverso movimenti tattili dei palmi delle mani e delle dita, talvolta paralleli, talvolta convergenti e divergenti, sui volumi e sui contorni rifilati del ritratto. La fanciulla è vista di spalle, mentre si sporge verso lo specchio, dando idealmente la spalla sinistra all’osservatore, laddove la destra non è visibile poiché fuori scena. Il taglio prospettico scelto da Utamaro è di grande modernità, e anche questo avrebbe determinato la fortuna critica dell’artista, nel secolo successivo, sia per effetto dello studio operato dagli impressionisti francesi sulla stampa giapponese, sia per effetto delle operazioni dei mercanti occidentali, particolarmente attenti al valore d’acquisto di queste grafiche. La figura di Okita appare in primo piano, posta a destra dell’osservatore, e ne cogliamo l’elegante nuca, l’attaccatura dei capelli, l’ovale della guancia sinistra, la costruzione dei volumi nell’acconciatura articolata e tradizionalmente plastica e l’orecchio sinistro, stilizzato nella raffinata anatomia del lobo e del padiglione. Apprezziamo, come accennato, parte della spalla sinistra: su di essa la veste scivola perfettamente, disegnando con il colletto del kimono una curva, lievemente e accuratamente discostata dal collo che incarna una delle innumerevoli sfumature dell’Iki, la conoscenza della seduzione, quale forma suprema di coscienza della misura tra vicinanza e distanza, nelle forme dell’amore, e nell’intera espressione della vita. La struttura dell’Iki è qualcosa di immensamente sensibile, ha molti aspetti e strette attinenze con l’Ukiyo-e poiché risponde anch’essa alla visione cosmica buddhista e in fondo riassume in sé tre momenti fondanti un certo modo di essere: tra seduzione, energia spirituale e rinuncia. Dinanzi alla fanciulla, appare lo specchio nel quale possiamo vedere riflessa la fisionomia di Okita: lo specchio è circolare, grande, e posto frontalmente rispetto alla donna, non però rispetto all’osservatore che legge la scena percependone la collocazione spaziale in scorcio prospettico. Ed è proprio su questa superficie dello specchio riflettente, quindi sul piano che riproduce illusionisticamente la profondità di uno spazio simmetrico e speculare, raddoppiato, che emerge il volto aggraziato di Okita. La giovane ha tratti somatici nipponici propriamente stilizzati: naso sottile e lievemente arcuato, narici piccole e poco prominenti, occhi allungati e sopracciglia disegnate come elegantissimi archi tesi, bocca a bocciolo, in cui le delicate labbra, schiuse, permettono di scorgere, sia pur impercettibilmente, i denti minuti. I capelli sono pettinati secondo la tradizione dell’acconciatura chiamata Shimada – mage, molto diffusa in età Edo, soprattutto tra le donne di estrazione sociale non elevata e tra gli attori di kabuki, e risultano elegantemente disciplinati e raccolti a serpentina sulla sommità del capo, quindi fissati affinché disegnino un elegante ovale sulla nuca, oltre il quale, sulla sommità del capo, si orienta la curvatura dei capelli per creare un’onda, internamente cava, sostenuta da un fermaglio a bastoncino. Alle estremità destra e sinistra compaiono due ali di capelli disposte a ventaglio, che insieme disegnano un arco ideale e conferiscono alla testa una geometria simmetrica che si dilata esternamente. Nell’immagine allo specchio, vediamo due fermagli fissati sull’acconciatura di Okita, i quali completano l’elegante pettinatura sorretta dall’archetto posto al centro del capo. Nell’immagine della giovane che si specchia, scorgiamo solo un fermaglio, il sinistro, e i nastri che contengono lateralmente e sulla sommità dei capelli le ripetute piegature e ondulazioni. Non va sottovalutato, a tal proposito, il significato comunicativo e sociale dell’acconciatura dei capelli che nella cultura tradizionale giapponese non è mai casuale, bensì indice di una precisa codificazione dei ruoli. Non si tratta quindi di variazioni solo regionali: il modificarsi dell’acconciatura è uno stile che indica l’età della donna, la classe, lo stato civile, la professione e il suo ruolo sociale. La codificazione delle acconciature raggiunse l’apice nel periodo Edo (1600-1868) ma affonda le radici in epoche antiche: ad esempio la pettinatura Taregami, con capelli lisci e sciolti sulle spalle, divisi in due bande laterali per effetto della scriminatura centrale sul capo, era molto diffusa tra le donne appartenenti a famiglie aristocratiche e samurai del periodo Heian (794-1185) che volevano prendere distanza dalle precedenti tradizioni influenzate dalla cultura cinese. I capelli acconciati venivano cosparsi di olio profumato lucidante e poi disciplinati con l’ausilio di supporti e talvolta ciocche posticce. Sul lato destro superiore della composizione, scritto in ideogrammi, si legge il tema della scena che tradotto recita: Sette donne davanti allo specchio per il trucco, Okita allo specchio è quindi una delle immagini tratte dalle sette citate e ricordate. Al margine inferiore della grafica, tra Okita che si specchia e la sua immagine riflessa nello specchio, leggiamo la firma dell’artista Utamaro ga e il marchio dello stampatore Hammoto. Sulla veste di Okita scorgiamo infine una decorazione floreale, stilizzata, dal cui disegno è stato possibile identificare la famiglia di appartenenza di questa fanciulla il cui ineffabile fascino, inflessibile ed elegante, sensuale e rigoroso, racconta implicitamente un’intera civiltà e una via.
Cenni sull'artista:
Kitagawa Utamaro nacque quasi certamente tra il 1753 e il 1754, nello Yoshiwara, il quartiere dei divertimenti della capitale giapponese Edo, attuale Tokyo. Nel 1770, con il nome Sekiyō pubblica un piccolo disegno per un’antologia di poesie illustrata dall’artista Toriyama Sekien, del quale era allora discepolo. Nel 1775, con il nome di Toyoaki, con il quale firmò le sue opere fino al 1782, illustra la copertina di un libretto teatrale. Nel 1781 si firma per la prima volta con il nome di Utamaro, in un libro illustrato. È proprio intorno a questa data che egli conosce il noto editore Tsutaya Jūzaburō, iniziando anche a frequentare i circoli letterari di Edo. Nel 1783 pubblica la sua prima serie di stampe singole in completa policromia. Si trasferisce a vivere nella casa di Tsutaya, dove rimarrà forse fino al 1788, anno dal quale Utamaro si afferma come uno dei maggiori autori di pubblicazioni a carattere erotico con il suo Utamakura, che tradotto significa Il canto del Guanciale. Nello stesso anno dà alle stampe l’antologia poetica illustrata, il cui titolo è Il libro degli insetti. Tra il 1792 e il 1793, pubblica alcune serie di ritratti di beltà femminili a mezzobusto: inizia per lui un periodo di grandi successi editoriali in cui vedono la luce alcune delle sue opere migliori. Nel 1797 la morte dell’amico Jūzaburō si rivela un duro colpo per l’artista: inizia così la fase meno brillante della sua carriera. Nel 1804 vengono posti in vendita i due volumi degli Annali illustrati delle case verdi, frutto di una sua collaborazione con Jeppensha Ikku, autore dei testi e l’opera avrebbe in seguito ispirato il titolo della monografia che lo scrittore francese Edmond de Goncourt scrisse su Utamaro nel 1891: Outamaro, le peintre des maisons vertes. Nel corso del quinto mese dello stesso anno viene arrestato, condannato alla prigione e a cinquanta giorni di catene per avere infranto le leggi sulla censura. Nel 1806 muore, nel ventesimo giorno del nono mese e viene sepolto nel tempio Senkōji di Edo. Guardando all’opera di Kitagawa Utamaro, nel suo complesso ricca di circa duemila stampe a colori, oltre alle illustrazioni, appare subito chiaro che l’aspetto preferito e più indagato di questo artista giapponese è il mondo delle donne, ovvero la bellezza femminile colta nei suoi molteplici atteggiamenti, quindi anche nei pregi e difetti della natura muliebre. L’analisi delle abitudini sia private che pubbliche delle figure femminili, condotta attraverso un segno grafico netto, preciso, inequivocabile e sostenuto da una ricchezza cromatica sfavillante ma mai inopportuna, può essere considerata una vera forza di indagine psicologica ed introspettiva di questo grande Maestro. Può risultare interessante evidenziare come, malgrado Utamaro fosse artista votato a una notevole autonomia espressiva, dall’inasprimento delle pene previste per coloro che avessero ignorato o non sufficientemente rispettato le regole della censura, derivò un cambiamento nella sua produzione di “shunga”, immagini erotiche e sensuali e ciò causò la dedizione più assidua del Maestro alla realizzazione di beltà femminili. Ma anche questi ritratti furono controllati dalle autorità, tanto che dal 1793 al 1796 si proibì di apporre il nome della dama sul ritratto, una imposizione che gli editori e gli artisti spesso riuscivano ad aggirare. Almeno apparentemente, il disonore della prigionia non ebbe effetti immediati sull’artista, dato che la sua produzione continuò a ritmi serrati. Tuttavia, solo due anni più tardi, all’apice della sua popolarità, l’artista si ammalò e in breve tempo morì. Con la scomparsa di Utamaro si concluse un periodo particolarmente glorioso della lunga storia dell’Ukiyo-e: le opere di questo artista sono infatti la più viva testimonianza del suo genio, come pure di un mondo, quello dello Yoshiwara, che entrava allora nella sua fase di decadenza. Eppure, i ritratti di beltà femminili eseguiti da Utamaro non hanno tempo, perchè appartengono alla sfera dell’eleganza, della raffinatezza, della grazia e della bellezza.