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Tecnica e dimensioni dell'opera originale:
Tecnica e dimensioni della traduzione plastica:
Soggetto iconografico:
Nel Cenacolo di Leonardo da Vinci si rappresenta il momento più drammatico e significativo delle ultime ore di vita di Cristo, narrate nel vangelo di Giovanni (Gv. 13,21 e passi seguenti), quando il Redentore annuncia consapevolmente il suo destino, pronunciando le seguenti parole: “Uno di voi mi tradirà”. All’ascolto della terribile previsione, gli apostoli atterriti si animano, passando da gesti di stupore a gesti di stizza, incredulità, dubbio, e incertezza.
Lo scenario in cui gli artisti collocarono il soggetto cristologico, a partire dal primo Rinascimento, è descritto con dovizia di particolari dagli evangelisti Marco e Luca che ambientano la scena in una grande stanza al piano rialzato, arredata con tappeti alle pareti, cuscini e divani. Per lungo tempo l’arte del Rinascimento si ispirò a tali vangeli, e conferì al luogo del congedo di Cristo dagli apostoli un aspetto ricercato o addirittura elegante: questa solennità del luogo si avverte anche nel capolavoro leonardesco, che descriveremo nei suoi significati iconografici ed estetici.
L’Ultima Cena è la definizione che la religione cristiana adotta per indicare il noto episodio in cui Gesù Cristo si raccoglie insieme ai dodici apostoli, in occasione della celebrazione della Pasqua ebraica, precedente la sua morte. Secondo i vangeli sinottici di Matteo, Marco e Luca il giovedì mattina i discepoli si presentarono al cospetto del Maestro per chiedergli ove desiderasse celebrare la ricorrenza della Pasqua ebraica ed egli per individuare il luogo adatto, inviò a Gerusalemme due dei suoi discepoli, che Luca ricorda come Pietro e Giovanni, anticipando loro l’incontro con un uomo, forse il padre dell’apostolo Marco, che li avrebbe condotti presso la casa del signore ove egli stesso prestava servizio. I due apostoli avrebbero dovuto seguire l’uomo, che recava con sé una brocca d’acqua, e quindi chiedere al padrone della dimora il permesso di celebrare con Cristo la sacra ricorrenza, che infatti si svolse proprio in quel luogo, poi detto del Cenacolo. L’episodio è narrato anche da San Paolo nella prima lettera ai Corinzi, ed è giudicato il più antico riferimento noto. Il giorno della ricorrenza, terminata la lavanda dei piedi, Gesù si assise a tavola, occupando il posto onorifico, centrale, e si narra che gli apostoli avessero dibattuto su chi dovesse sedersi vicino a lui. Secondo i vangeli, furono Pietro, Giovanni e Giuda Iscariota i commensali a lui più prossimi: alla destra di Gesù stava Pietro, alla sinistra Giovanni, e a fianco di Giovanni doveva trovarsi Giuda. Gesù intinse un boccone di pane nel pasto pasquale e lo porse a Giuda Iscariota dicendo: “quello che devi fare, fallo presto”. Nessuno dei commensali comprese però il significato di quelle parole mentre Giuda, secondo la narrazione evangelica di Luca, si alzò subitaneamente e abbandonò il Cenacolo. Mentre la cena continuava, Gesù compì un gesto insolito nel rito pasquale: prese il pane e dopo avere impartito la benedizione, lo spezzò e disse “Prendetene e mangiate. Questo è il mio corpo che è dato a voi; fate questo in memoria di me”. Poco dopo prese un calice colmo di vino e dopo averlo benedetto, allo stesso modo disse: “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza versato per molti, in remissione dei peccati”. Tale espressione scosse gli apostoli che riportarono l’avvenimento alle prime comunità cristiane, tanto che San Paolo, nella lettera ai Corinzi, presenta l’Eucarestia come un rito nel quale il fedele si sarebbe nutrito davvero del corpo e del sangue di Gesù poiché, considerata la contiguità fra l’ultima cena e la passione, il corpo di Cristo sarebbe stato donato in entrambe i casi, e il sangue versato. Giovanni è l’unico evangelista che non accenna all’episodio dell’Eucarestia, concentrandosi principalmente sulla lavanda dei piedi e sugli ultimi insegnamenti di Gesù. Vi è tuttavia un precedente riferimento all’Istituzione eucaristica in un passo del vangelo giovanneo in cui le parole pronunciate da Gesù vengono così riportate: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete”. Si è molto discusso sulla presenza o meno di Giuda durante l’Eucarestia: i vangeli di Marco e Matteo citano la rivelazione del tradimento prima dell’Eucaristia; pertanto, se ne deduce che Giuda non sarebbe stato presente in seguito. Luca inserisce la rivelazione del tradimento dopo L’Eucarestia mentre Giovanni non ne parla: alcuni padri della Chiesa, in seguito, credettero che Giuda fosse stato presente al convito mentre altri continuarono a dubitarne. Essendo i vangeli sinottici unica fonte storica sulla vita di Gesù, e tuttavia discordanti sulla cronologia degli avvenimenti, l’interrogativo non ha mai trovato risposta definitiva. Fu altresì oggetto di dibattito la ricerca delle origini del rito eucaristico, che fu creduto, anche su influenza di San Paolo, un rito teofagico, e si investigarono quindi i rituali dedicati a Iside, Osiride, Dioniso e Mitra. Nella classicità gli antichi romani interpretarono letteralmente le parole che indicano, invece, solo simbolicamente il dono del corpo e del sangue di Cristo, e le intesero quale testimonianza di un atto di antropofagia. Ne derivò un’ulteriore ragione di persecuzione dei protocristiani. Infine, gli storici fanno risalire le tradizioni dell’ultima cena al Gesù storico ma esistono dati inconciliabili tra il vangelo secondo Marco (al quale fanno riferimento anche i vangeli di Matteo e Luca) e il vangelo secondo Giovanni. La principale differenza sussiste nel fatto che in Marco l’ultima cena avviene nel giorno della Pesach, la Pasqua ebraica, e nel vangelo di Giovanni si parla di una cena consumata il giorno prima di Pesach. In questa giornata, tradizionalmente, si commemorava l’uscita degli ebrei dall’Egitto narrata nel libro dell’Esodo. Nel giorno della preparazione alla festa gli ebrei portavano un agnello al Tempio per sacrificarlo, e al rientro a casa preparavano una cena con simboli evocanti l’Esodo stesso. Il luogo in cui oggi si colloca l’evento dell’Ultima Cena è il Santo Cenacolo, situato sul Monte Sion, oltre le mura dell’odierna città vecchia di Gerusalemme. Tradizione vuole che un frammento della tavola sulla quale Cristo celebrò l’ultima cena con gli Apostoli sia conservata nella Cappella della Santa Colonna, presso la Basilica di San Giovanni in Laterano, a Roma.
Descrizione dell’opera:
La traduzione tridimensionale del Cenacolo di Leonardo ha richiesto di restituire i valori prospettici visivi, tipicamente quattrocenteschi, in valori plastici tattilmente percepibili. Le linee guida ricavate in piani convessi corrispondenti a profili staccati, aggettanti rispetto al piano di posa, codificano la prospettiva e la rendono dato tangibile. La realizzazione in scala ridotta, rispetto all’originale, della traduzione tridimensionale del Cenacolo di Leonardo, tiene conto delle soglie tattili ed è stata curata in ogni minimo dettaglio, per restituire al lettore le qualità estetiche del dipinto, e permetterne un adeguato apprezzamento. Una volta presa confidenza con lo sviluppo perimetrale del bassorilievo, si consiglia una lettura aptica possibilmente bimanuale, che faccia scorrere le dita del lettore dall’interno verso l’esterno della composizione, quindi dalla figura centrale di Cristo, lungo i profili, rispettivamente, dei dodici apostoli raccolti per tre, in quattro gruppi, due a destra e due a sinistra del Redentore, posto in posizione centrale a tavola e nella composizione pittorica. A seguire si propone una lettura analitica delle fisionomie dei volti di Gesù e degli apostoli, delle posture dei corpi e dell’espressività dei movimenti delle mani, per poi scendere alla lettura delle posizioni dei piedi dei discepoli, passando attraverso la percezione dello sviluppo orizzontale della tovaglia che interrompe i corpi dei commensali. La lettura dovrebbe concentrarsi ora sulla relazione tra l’espressione di Cristo e l’esternazione delle emozioni sul viso degli apostoli e procedere con la visione tattile delle pareti laterali, disposte come piani inclinati che illusoriamente convergono, in modo da far intuire la deformazione prospettica. Sulle due pareti laterali, quindi, si aprono porte di servizio alternate ad arazzi appesi. Alle spalle di Cristo vediamo la parete di fondo in cui si aprono tre luci, ovvero tre finestre aperte su un panorama naturale e collinoso: in questa fase sarà importante soffermarsi su alcuni particolari del paesaggio, e dell’architettura interna. L’azione tattile che conclude la conoscenza della scena è la percezione del soffitto a cassettoni che permette al lettore di interpretare la profondità spaziale, e quindi la ardita visione prospettica dello spazio del Cenacolo con la geometrica resa del soffitto, rappresentato in forte scorcio.
Per una descrizione più approfondita dell’opera, si propone di partire dalle suggestioni di Johann Wolfgang Goethe che, dopo febbrile gestazione, nel 1817 ha scritto forse le pagine più belle che si ricordino sull’Ultima Cena di Leonardo da Vinci. La sua descrizione ancora oggi risulta folgorante per chiunque si accosti al capolavoro e desideri penetrarne con sensi, cuore e intelletto, il contenuto evangelico e umano. Goethe restituisce al lettore il flusso di emozioni che attraversa i dodici apostoli, mentre Cristo annuncia consapevolmente il suo destino, dopo avere pronunciato le seguenti parole: “C’è uno tra voi che mi tradirà”. La previsione che determinerà la fine terrena del figlio di Dio viene riportata nel vangelo di Giovanni, a cui il capolavoro di Leonardo si ispira per offrirne magistrale interpretazione. All’ascolto del Maestro, gli apostoli atterriti si animano, passando dallo stupore all’incredulità, dal timore all’incertezza, dall’annichilimento alla reattività: ne deriva una riflessione lucida e sincera sulla natura umana e sulla sua complessità. Il Cenacolo è infatti un’opera totale, in cui si coglie l’ineguagliabile forza con la quale l’artista penetra la natura fisica e metafisica delle cose, la verità e il mistero, in termini sia teologici che filosofici. Anche per questo l’opera, frutto della tecnica pittorica sperimentale di Leonardo, dipinta a tempera e olio su gesso, afflitta da lento ma inarrestabile degrado, evoca in noi i principi di transeunte ed eternità, nonostante il soccorso e il meraviglioso recupero operati nell’ultimo restauro. Al centro della composizione, in offerta di sé, vediamo Cristo, visibilmente turbato e mesto, assiso a tavola. Il Redentore china lievemente il capo alla sua sinistra, quindi alla destra dell’osservatore, ha le braccia aperte similmente a come lo vediamo nelle iconografie bizantine dell’imago pietatis: la mano destra con il palmo rivolto verso la tavola sembra voler contenere qualcosa mentre la sinistra ha il palmo rivolto verso l’alto, in eloquente atto di consegna. Dalla gestualità delle mani e dalla vicinanza al pane e al vino, si evince l’allusione all’Eucarestia. Alla sua destra, quindi a sinistra del lettore, incontriamo il primo gruppo di tre apostoli: Giovanni evangelista, discepolo prediletto, Pietro e Giuda Iscariota. Giovanni, come vuole la tradizione, ha un’espressione mite e addolorata, e una fisionomia quasi efebica: si avvicina a Pietro che lo richiama con la mano sinistra, pregandolo forse di chiedere a Cristo l’identità del responsabile del tradimento. Pietro è volitivo, si slancia in avanti e, brandendo minacciosamente un coltello con la mano destra, lascia già presagire il ferimento dell’assalitore Malco, avvenuto durante la concitata cattura di Cristo. Giuda Iscariota, colui che tradisce, si sporge in avanti trattenendo con la mano destra il sacchetto delle monete ricevute quale ricompensa per la sua infedeltà mentre con la sinistra sta per prendere un pezzo di pane posto sulla tavola. Tale gesto fa da eco a quello anticipativo e analogo di Cristo, che Leonardo studia per rendere ancora più leggibile, quindi inequivocabile, l’identificazione del traditore. Nella tensione del movimento repentino di allungamento sulla tavola, Giuda inavvertitamente e convulsamente rovescia la saliera. A destra del lettore, quindi alla sinistra di Cristo, troviamo nell’ordine Tommaso, Giacomo Maggiore e Filippo. Il volto di Tommaso sporge da dietro il corpo di Giacomo. Tommaso alza il dito con fare interrogativo: l’indice sollevato anticipa l’episodio in cui il discepolo incredulo, privilegiando il senso del tatto a percepire il vero, infilerà il dito nelle piaghe di Gesù, dopo la Resurrezione, per essere certo della sua visione. Giacomo Maggiore sembra quasi ritrarsi e allargando le braccia china il capo, con espressione di smarrimento. Filippo, in piedi e lievemente proiettato in avanti, si tocca il petto, a indicare il proprio cuore puro, per scongiurare una sua eventuale responsabilità. Spostandoci all’estremità sinistra della tavola, leggiamo, dall’esterno verso l’interno, il gruppo composto da Bartolomeo, Giacomo Minore e Andrea.
Bartolomeo, rappresentato con folti riccioli e barba, si alza in piedi di scatto, facendo leva sulle mani poggiate sul tavolo e rivolge tutta la sua attenzione alle parole di Cristo. Giacomo Minore, dai capelli lunghi e lisci, pone la mano destra sulla spalla destra di Andrea e con la sinistra sfiora il corpo di Pietro. Andrea, calvo e con la barba, alza le braccia e mostra allo spettatore i palmi delle mani, in un gesto di accorato stupore. Infine, l’ultimo gruppo degli apostoli, partendo dal margine esterno della tavolata a destra del lettore, presenta Simone Zelota, Giuda Taddeo e Matteo. Simone è seduto compostamente, le sue mani allineate e sospese all’altezza del petto, sembrano rinforzare, nell’orientamento verso il Cristo, la potenza delle parole pronunciate dal Redentore. Giuda Taddeo, con capelli lunghi e folta barba, si consulta con Simone e sembra perplesso. Matteo, anch’egli con il viso rivolto a Simone, ha le braccia tese in direzione opposta, ovvero verso Cristo, e sembra dare continuità all’espressione gestuale di Simone. Sulla tavola è stesa una tovaglia bianca di cui sono leggibili le tracce della piegatura. Sotto la tavola apparecchiata con stoviglie, pane e cibo in abbondanza, compaiono le gambe e i piedi degli apostoli. Il tavolo è sostenuto da due cavalletti posti alle estremità e l’effetto che ne deriva è la percezione di quattro gambe di supporto. Tutt’intorno alla scena principale vediamo l’ampio spazio della sala del Cenacolo, con le pareti laterali addobbate da quattro arazzi per parte mentre alternate agli arazzi vi sono delle porte di servizio. È però solo nella lettura della parete di fondo, e quindi delle tre fonti di luce generate da una porta centrale sormontata da un arco ribassato, sulla quale Cristo si staglia, e da due finestre laterali, che è dato scorgere lo sfondo paesaggistico esterno all’ambiente del Cenacolo. Il paesaggio naturale è collinoso, sereno e silente: in prossimità della linea di orizzonte si avverte lo stile pittorico propriamente leonardesco, in cui toni e colori si fondono insieme, creando effetti luministici sfumati e l’impressione di un’energia invisibile, capace di animare ogni creatura, in assenza di staticità. Dietro i profili in sottosquadro dei corpi dei discepoli e di Cristo, si apre uno spazio vuoto che le mani potranno avvertire e riconoscere come codificazione dell’unità di misura di profondità di campo, per poi raggiungere la parete di fondo.
Sulla linea di orizzonte è possibile sentire lo stacco tra terra e cielo e solo idealmente percepire la luminosità retrostante i promontori, concentrata sui profili modulati delle colline. Sollevando le braccia e rovesciando i palmi delle mani verso l’alto si potrà percorrere nella lunghezza la trabeazione che delimita lo spazio superiore della prospettiva, entro la quale Leonardo colloca l’Ultima Cena. Sentiremo così il digradare degli elementi verso un ideale punto di fuga centrale. Le linee orizzontali e quelle oblique, convergenti, disegnano in ardito scorcio prospettico il soffitto a cassettoni; parallelamente, nella sezione inferiore del bassorilievo, si potrà apprezzare lo sviluppo in scorcio della pavimentazione. I colori del Cenacolo sono purtroppo molto compromessi dalle vicissitudini che hanno interessato il lento e inarrestabile degrado della materia pittorica. Tuttavia, si possono riconoscere toni dell’azzurro, del rosso e del rosa nelle vesti drappeggiate degli apostoli, e colori neutri, che virano anche in toni più o meno scuri del bruno, dell’ocra e del verde, presenti sulle pareti e su ciò che resta delle decorazioni tessute negli arazzi.
Sarà opportuno concludere questa descrizione citando testualmente Goethe che nella sua disamina del Cenacolo spiega come Leonardo abbia “(…) raffigurato tredici personaggi, dall’adolescente al vegliardo: uno pacatamente rassegnato, uno spaventato, undici eccitati e turbati dal pensiero di un tradimento in seno alla famiglia. Qui si osserva l’atteggiamento più mite e più composto fino all’esternazione delle più violente passioni. Se tutto questo doveva essere preso dalla natura, quale il tempo richiesto per scovare tanti particolari e rielaborarli nell’insieme! Perciò non è affatto inverosimile che Leonardo abbia atteso all’opera per sedici anni, senza giungere a conclusione né col traditore, né col Dio fatto uomo, e proprio perché entrambi sono soltanto concetti, che non si vedono agli occhi”.
Cenni sull'artista:
Leonardo di ser Piero da Vinci fu uomo di straordinarie doti intellettuali: scienziato, umanista, pensatore, ingegnere, musicista e inventore, artista completo in quanto scultore, architetto e pittore, si dedicò alla sperimentazione della tecnica pittorica e fu grande anatomista, incarnando così l’immagine del genio rinascimentale applicato all’universalità del sapere. Secondo Vasari già nel 1462 il giovanissimo Leonardo viene presentato dal padre ad Andrea del Verrocchio, in Firenze, il quale nel vederne i primi disegni, prodotto della sua già matura genialità, resta folgorato e decide di trattenerlo presso di sé a bottega. Gli storici sono però discordanti sull’effettiva data di ingresso di Leonardo, nella Bottega del Verrocchio. Nel 1472 è citato nella Compagnia dei pittori fiorentini di San Luca e il 5 agosto 1473 Leonardo data la sua prima opera certa: il disegno con veduta a volo d’uccello della valle dell’Arno. Dello stesso anno dovrebbero essere l’angelo, in primo piano a destra, e il paesaggio del Battesimo di Cristo, agli Uffizi, opera del Verrocchio. Dalla bottega del Verrocchio proviene anche l’Annunciazione, che in seguito a numerose dispute della critica è oggi unanimemente attribuita solo al genio leonardesco. Nell’aprile del 1476 Leonardo, insieme ad altri, viene denunciato per sodomia, consumata su un ragazzo diciassettenne, Jacopo Saltarelli. Tra i denunciati vi è anche Leonardo Tornabuoni, giovane aristocratico: grazie all’intervento della sua potente famiglia la denuncia viene archiviata e gli imputati assolti cum conditione ut retumburentur, ovvero salvo ulteriori denunce in merito. All’epoca Firenze, pur tollerante verso l’omosessualità, prevedeva pene severissime in questi casi, addirittura la condanna al rogo. Dal 1478 Leonardo diviene pittore indipendente e riceve il suo primo incarico pubblico per la realizzazione di una pala destinata alla Cappella di San Bernardo, nel palazzo della Signoria. Tra la primavera e l’estate del 1482 si trova a Milano e decide di restarvi per prestare servizio alle potenti signorie del luogo, anche in materia di progettazione di nuove armi da guerra. A Milano Leonardo trascorre il periodo più lungo, quasi venti anni, realizzando opere eccelse tra le quali annoveriamo proprio l’Ultima Cena, presso il Refettorio della Chiesa di Santa Maria delle Grazie, eseguita per il suo patrono, il Duca di Milano Lodovico Sforza. Il contemporaneo novelliere Matteo Bandello scrive di averlo visto più volte “(…) recarsi al Cenacolo, dal primo mattino all’imbrunire, e (…) non levarsi mai il pennello di mano, ma scordatosi il mangiare e bere, di continovo dipingere”. Dal 1501 Leonardo è nuovamente a Firenze, ospite dei frati Serviti della Santissima Annunziata; qui disegna il primo cartone di Sant’Anna con la Madonna, il Bambino e san Giovannino, oggi a Londra. Passato alle dipendenze di Cesare Borgia come architetto e ingegnere, lo segue nelle guerre combattute nelle terre della Romagna mentre in agosto è a Pavia, dove ispeziona le fortezze lombarde del Borgia. Dal marzo 1503, nuovamente a Firenze, inizia la realizzazione della Gioconda e di una perduta Leda. Nella primavera dello stesso anno riceve l’incarico di affrescare la Battaglia d’Anghiari presso il salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio e in questo periodo Leonardo dipinge anche la Gioconda. Il ritratto della nobildonna, identificata tradizionalmente come Lisa Gherardini, nata nel 1479 e moglie di Francesco Bartolomeo del Giocondo, è considerato il più famoso del mondo sia per la resa della celebre tecnica leonardesca dello sfumato, magistralmente testimoniata nel paesaggio e sul volto femminile del soggetto ritratto, sia per la fusione tra uomo e natura, espressa con filosofica enigmaticità e al tempo stesso sapiente verità. La Gioconda rappresenta per Leonardo un vero e proprio testamento intellettuale e spirituale. Il 9 luglio del 1504 muore il padre Piero e Leonardo annota più volte la triste circostanza dalla quale emergerà un conflitto tra fratelli per l’eredità: l’artista ne sarà escluso perché giudicato figlio illegittimo. Tra il 1509 e il 1519 ritorna a Milano dove, oltre ai molti incarichi, si applica agli studi di anatomia allo scopo, egli dice: “di dare la vera notizia della figura umana”. Il 24 settembre 1514 parte per Roma e alloggia negli appartamenti del Belvedere al Vaticano: non ottiene commissioni pubbliche ma si dedica agli studi di meccanica, ottica e geometria. Si occupa della bonifica delle paludi pontine e riprende lo studio del progetto per gli specchi ustori, volti a convogliare i raggi solari verso una cisterna piena d’acqua per lo sviluppo di calore ed energia funzionali alla propulsione delle macchine. Nel 1517 Francesco I di Francia lo invita nel suo paese. In Francia Leonardo viene insignito del titolo di premier peintre, architecte, et mecanicien du roi, e gli viene assegnata una rendita di 5.000 scudi.
La fortuna critica del pittore è stata immediata e nel tempo mai oscurata: da Vasari a Lomazzo, da Goethe e Delacroix, da Taine a Wölfflin, da Chastel ad Argan, la teoria dell’arte è unanime nel considerare Leonardo, e lo diciamo sinotticamente attraverso le parole di Wolfgang Goethe, colui che “regolarmente e perfettamente formato, appariva, nei confronti della comune umanità, un esemplare ideale di essa” e “come la chiarezza e la perspicacia dell’occhio si riferiscono più propriamente all’intelletto, così la chiarezza e l’intelligenza erano proprie dell’artista”. La pittura per Leonardo è scienza, rappresentando “al senso con più verità e certezza le opere di natura”. Leonardo scienziato, inventore e pittore ha prodotto innumerevoli studi, progetti, pensieri e trattati, lasciando in eredità ai posteri la solidità delle teorie applicate alla sperimentazione continua, in natura, della loro validità. Nei codici che raccolgono ogni sorta di studio sul creato e sull’anatomia umana, ma non solo, egli ribadisce la necessità prioritaria di risalire all’esperienza ogni volta che si debba rappresentare in un concetto il dato sensibile e il suo manifestarsi nel reale. Tra i suoi studi di anatomia si ricordano l’impressionante descrizione del feto prima della nascita e anche l’indagine sui meccanismi dell’occhio per la comprensione della visione tridimensionale, che lo porta a scoprire l’esistenza della retina e del nervo ottico, partendo dalla dissezione di un occhio di bue.
Il 23 aprile 1519 l’artista ormai anziano redige il suo testamento davanti al notaio Guglielmo Boreau e dispone di essere seppellito nella chiesa di Saint-Florentin ad Amboise. L’uomo che aveva trascorso l’intera sua vita “vago di vedere la gran copia delle varie e strane forme fatte dall’artifiziosa natura” da lui assimilata a una grande caverna oscura, nella quale “stupefatto e ignorante” aveva guardato con paura e attrazione, per sondarne i misteri e i miracoli, muore il 2 maggio del 1519. Il 12 agosto viene inumato nel chiostro della Chiesa di Saint-Florentin, nel rispetto delle sue volontà. Cinquant’anni dopo, violata la sepoltura, le sue spoglie vanno disperse nei disordini provocati dalle lotte religiose fra cattolici e ugonotti: oggi la tomba di Leonardo si trova nel castello d’Amboise.