Tutto comincia con un quadro. Tempera su tela, “La parabola dei ciechi”, una delle ultime opere di Pieter Bruegel il Vecchio, è stata dipinta intorno al 1568 e oggi si può ammirare al Museo Nazionale di Capodimonte a Napoli. Il pittore olandese, riprendendo un tema caro a colleghi come Bosch e Metsys, rappresenta sei personaggi ciechi in fila indiana che, in maniera angosciante e grottesca, si trascino l’uno dietro l’altro, seguendo il primo di loro che vediamo rovesciato in un fossato. Ispirato alla parabola del Vangelo di Luca (“Può forse un cieco fare da guida a un altro cieco?”) e a quella di Matteo (“Sono ciechi e guide di ciechi.
E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso!”), il dipinto del maestro fiammingo mostra in maniera realistica la brancolante condizione dell’uomo e la sua cecità spirituale. Il significato allegorico del capolavoro di Bruegel sconvolse il panorama artistico delle epoche seguenti tanto da diventare, nel tempo, un riferimento non solo in ambito pittorico, ma anche letterario. Tra gli altri, anche il poeta francese Charles Baudelaire (...Guarda! anch’io mi trascino! ma, più inebetito d’essi, Io dico: Cosa chiedono al Cielo, tutti questi ciechi?...) e l’americano William Carlos Williams, il drammaturgo belga Premio Nobel Maeterlinck e lo scrittore tedesco Gert Hofmann. Professore universitario e autore di drammi radiofonici scappato dalla Germania Est, Hofmann nella sua lunga e prolifica carriera vinse numerosi premi letterari. La novella, scritta nel 1985, che porta lo stesso titolo della tela di Bruegel, è scritta utilizzando la prima persona plurale. Già in questa scelta stilistica è evidente l’intento dell’autore di coinvolgere il lettore, e con esso l’umanità intera, nello sviluppo della sua narrazione. Il noi, infatti, diventa un modo per raccontare non una storia, ma la nostra storia. Così, con un linguaggio teatrale e sinistro, Hofmann ci conduce in una vicenda che ha come sfondo la guerra tra protestanti e cattolici avvenuta durante la seconda metà del Cinquecento. Il gruppo di ciechi, il noi narrante, si muove e agisce in un’Europa sofferente e distrutta da lotte e privazioni, in un’Europa illuminata da bagliori di guerre.
Come quelli raffigurati nel quadro, i ciechi raccontati da Hofman sono un gruppo disperato e fragile, che nulla può contro la crudeltà che li circonda. Cercano invano di aiutarsi l’un l’altro, riponendo una fiducia che pare ridicola nella loro guida, cieca come loro, e vagano come pellegrini per raggiungere il Grande Pittore che vuole ritrarli. Quella è per loro l’unica occasione di essere visti da un mondo che li ignora e li deride. Alla disperata ricerca di raggiungere quel riscatto, i sei camminano sbrindellati, sporchi, confusi, incontrando lungo il loro sciagurato cammino altri esseri umani, personaggi che per lo più li ingannano, li deridono, li sbeffeggiano, depredandoli anche della loro dignità. Con grande maestria, l’autore dipinge con le sue parole il paesaggio del quadro, utilizzando i diversi particolari come elementi scenici del viaggio che compiono i sei viandanti.
Incapaci di orientarsi nel buio delle loro esistenze, i sei ciechi siamo noi. Sono passati più di quattrocento anni dal quadro di Bruegel, e trentacinque dalla prima edizione di Hofmann, ma nelle cento pagine del libro (pubblicato in Italia da Guanda nel 1988 e ripubblicato in tempi recenti da Racconti Edizioni con una postfazione di Micheal Hofmann, figlio dell’autore), risuona l’oscurità del cammino che ognuno di noi compie nella sua esistenza. Addentriamoci così, come i sei ciechi, nel lirismo delle sue parole, per provare a comprendere quanto di ridicolo ci sia nelle sicurezze alle quali ci aggrappiamo, ogni giorno, sperando che, alla fine, qualcuno ritragga la nostra verità. Quando, forse, più che cercare conferme nello sguardo degli altri, dovremmo imparare a trovarle in quello delle nostre anime perdute.