Nel 2013 ho ripercorso l’odissea di mio nonno materno, Cermaria Elmo, Fante Contadino di Sant’ Angelo in Lizzola (PU). Elmo, un ragazzo di 19 anni, uno dei 2.600.000 contadini che cento anni fa sono andati in guerra a morire. Fu abbandonato dai suoi comandanti sul Fajtji Hrib, preso prigioniero, ha percorso tutte le strade dell’ inferno; più di 5.500 km rinchiuso in tre diversi lager: Sigmundsherberg, Josikafalva, Vinkovci. Trattato peggio di una bestia, a dispetto di tutto e di tutti, contando solo su se stesso, è sopravvissuto ed è tornato a casa da solo, vivo. In questo riassunto riporto una piccola parte del racconto scritto da mio nonno, dalla sua prigionia fino a quando la Grande Guerra terminò. I fatti sono avvenuti esattamente un secolo fa. L’intera vicenda di mio nonno, durata tre anni, tra guerra e prigionia e le considerazioni che ne sono scaturite, sono riportate nel mio libro: “Forte Verena – 24 Maggio 1915, ore 4. Trilogia della Grande Guerra” - Edizioni il Fiorino – Modena.
Questa parte del racconto inizia il 29 di ottobre del 1917 sul Fajtji hrib e termina l’ 11 di Novembre del 1918 a Fiume.
(…) Arriviamo al 29 Ottobre del 1917
Ci siamo resi conto che eravamo tutti prigionieri in quanto eravamo rimasti isolati. Ci siamo ritirati tutti su di una dolina ed aspettavamo solamente che arrivassero i Tedeschi, questo perché dove si trovava la nostra linea non c’era più nessuno, erano fuggiti tutti, noi non sapevamo dove andare. I nostri ufficiali ci avevano abbandonato. Noi eravano sul Dosso Faiti (NdR: oggi Fajtji hrib, in Slovenia) che è un monte molto alto, vedevamo i razzi dei Tedeschi sul monte San Michele, vale a dire 8 o 10 chilometri più indietro. Era chiaro che eravamo prigionieri perché ci trovavamo intrappolati all’interno delle linee nemiche. I nostri ufficiali ci avevano lasciato lì senza nessun ordine, né di avanzare, né di ritirarci. Verso le 23 arrivarono 5 soldati tedeschi, spararono qualche colpo da sopra la dolina e ci fecero prigionieri. Abbiamo reso le armi. A raccontarla tutta sarebbe troppo sporca. I nostri Comandanti si sono ritirati di giorno e penso proprio che si siano salvati tutti, mentre noi, poveri soldati, lì in trincea a tener duro il Fronte e, morire. Questo è stato quello che noi abbiamo pensato dato che ci avevano abbandonato senza nessun ordine. Noi non potevamo fare i vigliacchi ed abbandonare la trincea, però alla fine ci siamo dovuti arrendere perché eravamo circondati. Tra gli ufficiali che erano fuggiti c’era anche il tenente che legava i soldati al palo quando marcavano visita e risultava che non stavano “troppo male”. Una volta fatti prigionieri, ci misero in colonna. Un soldato tedesco si mise in testa alla colonna e cominciammo a marciare. Mentre camminavamo i soldati Tedeschi ci davano la mano e dicevano: “gut noben Tagliano nietz broten". Un mio amico voleva sapere cosa dicessero, io avevo capito e dissi: “niente. Chiedono a noi se abbiamo il pane, figuriamoci.Andiamo bene”. Erano tre giorni che non toccavamo il rancio in quanto, a causa dei bombardamenti e della fuga non avevamo più ricevuto il cibo.
Ad un certo punto ci hanno fermato in una casa diroccata fino al giorno dopo. Il mattino dopo i Tedeschi ci diedero un po’ di acqua calda, senza pane. Ci siamo rimessi in cammino fino alla stazione di san Daniele (NdR: oggi Štanjel, in Slovenia), sopra Trieste. Una volta arrivati ci misero in un prato con le guardie attorno a noi: pioveva a dirotto, eravamo bagnati dalla testa ai piedi ed ancora senza mangiare per tutto il giorno. Alla sera arrivò l’ordine di partire: mentre andavamo in stazione vedevamo le marmitte da campo dove i Tedeschi avevano messo a cuocere le barbabietole secche, le stesse barbabietole che noi contadini diamo da mangiare agli animali. Ad ognuno di noi veniva data una pagnottina di pane ed un mestolo di barbabietole bollite.
Quando arrivò il mio turno mi diedero il mestolo di barbabietole… ma le pagnotte di pane erano finite. Aspettai perché avevo capito che erano andati a prenderle, ma in quel mentre arrivò un soldato tedesco che mi diede uno spintone cacciandomi via come un cane e senza pane. Era tanta la fame e la disperazione per quel pane che non avrei potuto mangiare che mi misi a piangere, singhiozzando come un bambino.
Mentre ero lì con la testa tra le mani che continuavo a piangere mi vide un altro soldato tedesco che mi chiese che cosa fosse accaduto (questo parlava italiano): io gli raccontati il fatto. Il soldato mi prese con lui, mi portò dove distribuivano il pane e mi fece consegnare la pagnottina che mi spettava. Come era buono quel pane!
Finito di mangiare il rancio siamo andati tutti alla stazione e ci caricarono su dei vagoni scoperti.Continuava a piovere e per scaldarci ci mettevano uno contro l’altro. Il treno partì non so dire per dove. Forse passammo per Lubiana. Ad un certo punto il treno si fermò tra due montagne in un binario morto. Sulla cima di quelle montagne nevicava ed a valle continuava a piovere. Rimanemmo lì tutto il giorno senza mangiare. Verso le 14 passò un treno: aveva un vagone pieno di barbabietole rosse e siccome rallentò molto, riuscimmo a prenderne una per uno, ma ne mangiammo solo metà tenendoci la rimanente come scorta.
Noi eravamo convinti che appena fosse venuto il buio ci avrebbero uccisi mitragliandoci tutti. La paura era tanta che ci faceva dimenticare il freddo, la stanchezza, tutto. Arriva la notte.Il treno all’improvviso si mette in moto, ho pensato: “per il momento la pelle è salva”. Il treno si fermò poco dopo in una stazione, non ricordo se fosse Insbruck.
In questa stazione ci diedero un mestolo di polenta, una pagnottina di pane ed un pezzetto di salame come il “sanguinaccio”. Allora ho proprio pensato: “per oggi non si muore più”. In quel treno ci siamo rimasti otto giorni e nove notti perché andava molto piano e doveva lasciare la linea libera per i treni che trasportavano le truppe tedesche ed il materiale al Fronte (stavano facendo l’avanzata fino al Piave). Siamo passati anche a Vienna e poi ancora due giorni a Nord di Vienna ai confini con la Cecoslovacchia. Eravamo diretti al campo di concentramento di Sigmundsherberg. Da lontano questo campo ci apparve come una grande città
(NdR: era chiamata la città di legno o la città dei morenti). Imparai poi che prima di noi (NdR: il nonno Peppe, con quello che rimaneva della sua Compagnia, fu uno degli ultimi soldati ad essere preso prigioniero sull’ estremità est del fronte italiano) erano arrivati più di 270.000 prigionieri. Una volta arrivati nel campo di concentramento ci hanno fatto il bagno, ci tagliarono i capelli e ci ritirarono tutti i vestiti di panno che avevamo dandoci in cambio dei vestiti di carta.
La camicia era fatta come la stola di un prete. Dopo tre giorni i pantaloni mi cadevano a pezzi, erano fatti con un filo più grosso di quello delle “balle” (NdR: così il nonno chiamava i sacchi di juta che usava per mettere il grano della trebbiatura).
Mi sembra di ricordare che mi lasciarono solo la giacca. Il primo giorno ci diedero da mangiare della polenta, poi le barbabietole secche; al mattino ci davano il tè. La razione di pane era una pagnottina in quattro: il pane era nero e “strideva” sotto i denti quando lo masticavamo. La pagnottina non era neanche un chilo, si facevano quattro pezzi, si faceva la conta per chi dovesse scegliere il primo quarto partendo da destra o da sinistra. Mai nessuno stava alle regole, tutti volevano prendere il pezzo più grosso, facevamo certe scazzottate.
Per evitare di fare a pugni facemmo delle bilancie di legno.
Certo che la fame è brutta. Non parliamo poi del freddo.
In quella zona non fa molta neve, ma c’è sempre tormenta accompagnata da gelate. La baracca conteneva 250 soldati, quattro baracche componevano un Gruppo. Quando c’era la tormenta il nevischio passava nelle fessure delle baracche e riempiva la stanza.
Alla sera quando andavamo a dormire ci mettevamo tutti da una parte, sul tavolato senza paglia, con una copertina da campo. Dopo un po’ che eravamo coricati ci prendeva un gran freddo e l’unico modo per farlo passare era quello di alzarsi e mettersi a camminare per la baracca.
Un pomeriggio per digerire il rancio del giorno, andai a trovare un mio amico (NdR: si tratta di Ugo Massaro, di Rovigo, che morirà di nefrite il 27 dicembre 1917. Ugo è sepolto nella fossa comune del cimitero del lager di Sigmundsherberg) e che si trovava in un altro Gruppo.
Ricordo che, oltre ad essere costituiti da quattro baracche, ogni Gruppo era recintato con una rete metallica alta 4 metri e guardato da una sentinella che con il fucile puntato ti ricordava che non potevi uscire dal tuo Gruppo. Non so cosa mi avesse preso quel pomeriggio… ma ero deciso ad andare a trovare il mio amico.
Riuscii a fare un buco nella rete del nostro recinto senza essere visto dalla sentinella ed andai a trovare il mio amico. Al ritorno ebbi una brutta sorpresa: la sentinella si era accorta che qualcuno era passato per quel buco e si era messa lì vicino facendo quattro cinque passi sulla destra e sulla sinistra. In questo modo non sarei potuto rientrare nel mio Gruppo.
Ad un certo punto mi sono fatto coraggio e sono passato di corsa.
Appena passato mi sono buttato tra gli amici della mia baracca che stavano a vedere la scena lì vicino. Immediatamente la sentinella mise la pallottola in canna e stava per spararmi. Mi sono salvato perché ormai ero tra i miei amici e la sentinella non riusciva a identificarmi, o non so, è che non dovevo morire.
Dopo questa esperienza non ho avuto più il coraggio di andare a trovare il mio amico.
La stessa sera ho trovato nel mio Gruppo un mio paesano detto “el moro d’Giumbilon” che, tanto per tenermi allegro, mi informò che in quel campo di concentramento ogni giorno morivano non meno di trenta persone. Le portavano via alle tre del pomeriggio.Un giorno andai con lui a verificare: vedemmo portare via trentatré nostri poveri connazionali. In media, ogni tre giorni, morivano cento soldati.
(NdR: questi soldati venivano seppelliti nudi, in sei file sovrapposte, nel cimitero del lager. Oggi di tutto questo rimane solo il cimitero, che l’ Austria ha dedicato, il 12 aprile 2018, a mio nonno, Cermaria Elmo).
Arriva il 13 di gennaio (del 1918), siamo partiti per andare a lavorare in Transilvania.
siamo partiti dal concentramento (di Sigmundsherberg) in 1.000 soldati, tutto il Gruppo. Anche quella volta abbiamo impiegato 7 o 8 notti di viaggio: Vienna, Budapest, Transilvania.
Verso l’otto di Giugno (1918)
ci hanno mandati in Croazia a Vircovina (ossia Vincovic); lì facevano una ferrovia nuova che andava a Zagabria e a Fiume.Scendemmo dal treno.Eravamo in mezzo a delle montagne e ci dirigemmo verso una vecchia casa che doveva essere il nostro cantiere.
Il 4 Novembre 1918
ci fu l’Armistizio.
I gendarmi ci dissero: “Italiani, potete tornare a casa”. Noi non credevamo che fosse vero anche perché otto giorni prima, la sera del 27 Ottobre un infermiere dell’ospedale mi disse: “Cermaria, è arrivata una telefonata è stato firmato l’Armistizio”.Siccome poi non si seppe più nulla, si pensava che anche questa volta fosse uno scherzo. Per questo motivo siamo rimasti, in cinque italiani, altri quattro giorni aspettando la notizia definitiva.
Il giorno 8 Novembre (1918) siamo partiti e siamo venuti a Fiume. Siamo arrivati a Fiume ed ancora gli Italiani non erano arrivati, c’erano le navi Francesi ed Italiane in porto, ma non erano sbarcati la sera dell’11 (Novembre 1918)
sono arrivati i carabinieri a cavallo e poi i bersaglieri e la fanteria, senza sparare un colpo, e poi alla sera un gran corteo, messo al Palazzo del Municipio le fotografie del Re e della Regina
e viva l’Italia.
(NdR: Il racconto di mio nonno finisce a Fiume).