Ce li siamo dimenticati. Moltissimi non li hanno neppure conosciuti e non possono ricordare i famigliari “richiami” che si udivano per le vie cittadine non ancora invase dal traffico frenetico.
Provate a dire oggi: “sulfanèr, sulfanèr, done”. Linguaggi ignoti, significato misterioso. Fino a poco più di mezzo secolo fa era invece l’annuncio, gridato per strada e accompagnato dal cigolio di un carretto, che stavo passando lo straccivendolo, raccoglitore di abiti, stoffe, cenci vecchi e sdruciti.
Era proprio la strada l’ambiente in cui venivano esercitati non pochi mestieri: dall’arrotino all’ombrellaio che risanava parapioggia strausati, dal “ giazaròl” (che vendeva ghiaccio per tenere in fresco gli alimenti) alla venditrice di pesce (“pesce, pesce fresco!”) che in bicicletta veniva dalle valli in città con il modesto pescato del giorno, dal suonatore di organetto o di pianola che diffondeva traballanti note di vecchie canzoni, al cinesino che offriva cravatte
( “tle clavatte cento lille”).
Un’attività mercantile o artigianale che si svolgeva per via punteggiando la vita di quartiere di figure familiari e tutto sommato attese per il servizio che rendevano a domicilio. In una delicata, quanto mai realistica e – vorrei dire – nostalgica canzone, Fausto Carpani - cantautore bolognese di alto livello e di grande amore per la sua città – rievoca “Al mi curtil” con i personaggi che lo animavano offrendo la propria opera: quasi un acquerello con luminosi colori e vivaci atmosfere.
Ma andando ben più indietro nel tempo, troviamo un’eccezionale “testimonianza” artistica del variegato e affollato mondo dei mestieri che nella Bologna del ‘600 si svolgevano en plein air, all’aperto per via. Ce l’ha lasciata questa testimonianza, Giuseppe Maria Mitelli (1634 – 1718) uno dei più prolifici incisori del Seicento, figlio del celebre pittore Agostino Mitelli: sono ottanta tavole (ognuna accompagnata da un breve commento o poesia in italiano, o a volte, in dialetto bolognese) ciascuna dedicata a uno dei mestieri praticati nelle strade e nelle botteghe di Bologna, ispirati a modelli opera di Annibale Carracci ne “Arti per via” dove ogni venditore o artigiano è ripreso individualmente e i personaggi sono tutti caratterizzati da una forte espressività ed icasticità, dal che si evince che ciò che interessa all’Artista è l’uomo, colto nella sua umile e popolare quotidianità.
Con l’avvento della fotografia si moltiplica a dismisura la documentazione delle attività, per la maggior parte svolte all’aperto: bottai e impagliatori di sedie, cestai e artigiani delle paglie destinate a mille usi, filatrici e ricamatrici (spesso sedute in gruppo davanti alla casa lungo la via o nei cortili), stagnini e lucida scarpe (antenati degli sciuscià di guerra), maniscalchi e fabbri, cordai e sellai, lavandaie e creatrici di cappelli di paglia da lavoro per donne e uomini.
Proprio i cappelli di paglia richiamano alla memoria, in specie, due attività il cui ricordo giunge fino a noi grazie anche ai canti nati proprio dalle protagoniste e dai protagonisti: le mondine e gli scarriolanti.
Poiché era proprio il canto spontaneo (che parlava delle durissime condizioni di lavoro nella risaia e della nostalgia di casa) ad aiutare le mondine a portare avanti il massacrante lavoro e a far sentire la condivisione e la coralità della fatica, si sono formati veri e propri cori (come ad esempio quello delle mondine di Bentivoglio nel bolognese) che eseguono i canti di allora partecipando ancora oggi a sagre e feste musicali, mentre restano paradigmatici e indimenticabili del “Riso amaro” (girato nel 1949 con la regia di Giuseppe De Santis) cui diede il volto una magnifica Silvana Mangano.
Più difficile rievocare l’epopea degli scarriolanti, braccianti agricoli, alla mercé dei “caporali”, che trasportavano la terra con le loro carriole durante i lavori di bonifica (fine ‘800 inizio ‘900) specie nella zona costiera della Romagna e in provincia di Ferrara. Anche loro però hanno un “inno” triste e cadenzato: “A mezzanotte in punto si sente un gran rumor ( … ) sono gli scarriolanti che vanno a lavorar”. Lavoro duro, mal pagato che - carriola dopo carriola – ha contribuito a far crescere il Paese.