In questa serie di articoli cerco di mostrare aspetti degli spazi della nostra città che conosciamo grazie al lavoro di ricerca di alcuni testimoni oculari, persone che studiano la città e il territorio sotto diversi punti di vista consegnando al nostro sguardo qualcosa che prima non c’era.
Come diceva George Perec nel suo “Specie di spazi:“ Lo spazio è un dubbio: devo continuamente individuarlo, designarlo. Non è mai mio, mai mi viene dato, devo conquistarlo”*.
Il testimone oculare di questo articolo è scomparso da molto tempo: Dante Alighieri e il suo “De vulgari eloquentia”, scritto in latino tra il 1303 e il 1305.
Nel suo tentativo di trovare un volgare illustre, ovvero quel volgare che possa assumere i caratteri di lingua letteraria all'interno del variegato panorama linguistico italiano, incrocia la nostra parlata scrivendo che “i Bolognesi parlano la lingua più bella di tutte” **. La motivazione di questa affermazione è dovuta alle migrazioni delle popolazioni.
Come tutti gli studenti ho letto questo testo da ragazzo e ricordo ancora la soddisfazione perché riconobbi un’impressione acustica sulla distribuzione delle variazioni del modo di parlare il bolognese.
Al tempo c’era ancora lo zio Giorgio. Parlava un dialetto che sentivo usare da lui e pochi altri. Abitava in centro, in via sant’Isaia davanti a quel luogo che chiamavamo “il Roncati”. Il suo era un dialetto che suonava “rotondo” come quello di alcuni anziani che giravano per il centro storico e si ritrovavano a discutere sul crescentone. Mio zio, interrogato sulla parlata, mi raccontava che storicamente chi abitava fuori porta veniva definito “arioso”, non bolognese.
La mia curiosità era diretta verso dove non si parlava rotondo.
Andando a studiare a casa dei compagni sentivo che le inflessioni dei loro genitori cambiavano e mi ricordavano le parlate dei territori vicini, a monte o a valle della periferia. Riconoscevo all’orecchio una varietà piuttosto ricca di forme vernacolari tutte variazioni del bolognese ma che non possedevano quella rotondità. Nel De vulgari eloquentia, Dante ci mostra che la parlata bolognese non è uniforme e che prende il “molle e morbido” dal romagnolo parlato dai Malatesta e “una certa chioccia asprezza che è propria dei Lombardi” che troviamo alla corte degli estense.
Due lapidi collocate in Via San Felice e a Porta Maggiore ci ricordano la mappatura delle parlate bolognese operata da Dante. Testimoniano che già il solo ascoltare parlare ci permette di tratteggiare una geografia più fine che non mostra non solo le grandi migrazioni, ma anche quelle minime degli anni in cui sono state lasciate le campagne.
Sicuramente Bologna è tanto cambiata oggi, ma nella mia memoria resterà sempre una mappa che suona all’orecchio in modo differente, sempre meno rotonda. La parlata come la città ha cambiato la sua forma.