Personalità importante della scena politica e sociale italiana, in passato Presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato della Repubblica e oggi fondatore e Presidente di A Buon Diritto onlus, Luigi Manconi è un uomo ricco di umanità, capace di impegno e di riflessioni profonde. All’Istituto Cavazza ha regalato non solo una preziosa prefazione al libro “Vedremo” (Pendragon Edizioni) che raccoglie i racconti dei nostri ragazzi, ma anche la sua partecipazione alla presentazione del libro a Palazzo d’Accursio.
Cosa l’ha spinta ad accettare l’invito per scrivere la prefazione di “Vedremo”?
Finora ho vissuto la mia cecità in maniera tutta personale. Non posso dire privata perché è un fatto notorio e, conseguentemente, chiunque entri in rapporto con me ne viene a conoscenza, ma comunque con modalità mie e con uno stile che riguarda esclusivamente me. Non ho mai avuto rapporti né con l’Unione Italiana Ciechi né con altre forme di associazionismo di persone ipovedenti e prive della vista.
Quando mi è arrivata quella richiesta ho pensato che invece fosse venuto proprio il momento, diciamo così, di assumermi una responsabilità pubblica partendo da una considerazione che non ho mai dimenticato e sulla quale insisto molto.
Io sono un cieco privilegiato, non posso fingere che la mia condizione sia uguale a quella di tutti i ciechi perché dispongo di risorse materiali e intellettuali che non tutti hanno, e in passato ho goduto di privilegi e comunque anche al presente ho sostegni e ausili che la stragrande maggioranza delle persone prive di vista non hanno. Era quindi giunto il momento di fare sentire la mia testimonianza, perché le persone vedenti ne prendessero conoscenza. Pur essendo io un cieco privilegiato resto un cieco e dunque condivido la gran parte delle carenze, delle privazioni e delle difficoltà che i non vedenti devono affrontare quotidianamente. Forse, con la mia testimonianza, posso contribuire a far conoscere ai vedenti qual è la situazione di coloro che la vista non l’hanno più o non l'hanno mai avuta o l’hanno in forma talmente ridotta da patirne quotidianamente la privazione.
Nel suo testo sottolinea quanto la “normalità di tanti a-normali” possa diventare una ricchezza e una risorsa da valorizzare. Cosa possiamo fare per questo?
Io penso che, senza alcuna tentazione di superbia e presunzione e falsa consolazione, la privazione della vista qualcosa di più in termini di sensibilità la dia. Ecco, mettere in gioco questa sensibilità, diffonderla, farla entrare nelle nostre relazioni con gli altri, scambiarla con i vedenti, farla conoscere, farla pesare nei nostri rapporti. Ripeto, senza che sembri una consolazione, sono convinto che chi non vede acquista delle facoltà di percezione, di conoscenza, di intelligenza che devono essere messe a disposizione di tutti, fatte circolare.
Oggi la “visibilità”, soprattutto per i giovani molto presenti sui vari social, è la modalità principale di esprimersi.
La scrittura, per i nostri ragazzi che non vedono, può essere un modo di raccontarsi alternativo?
La scrittura è una delle risorse più fantastiche di cui l’essere umano disponga, è l’invenzione più importante dell’umanità insieme alla ruota, è qualcosa di grandioso perché significa comunicare in maniera stabile. Ogni volta che una persona con difficoltà di comunicazione scrive, fa un’opera d’arte, esprime il proprio ingegno e lo mette a disposizione di un’altra persona o di molte persone. Faccio un paragone: chi è detenuto in un carcere si trova in una condizione che per certi versi, sottolineo per certi versi, richiama quella del cieco, del muto, del sordo, cioè l’impossibilità di comunicare con gli altri. Nel momento in cui quel detenuto trova la forza di comunicare, facendo teatro, scrivendo, dipingendo, ecco che il mondo gli viene incontro e lui viene incontro al mondo. Si crea la relazione e l’essere umano è relazione. L’esser umano non è stato concepito per essere solo, ma per essere in relazione.
La sua associazione A Buon Diritto onlus è impegnata a creare una cultura dei diritti nel nostro Paese e a difendere le persone che ne sono private. Cosa possiamo fare per ottenere il rispetto delle libertà per tutti?
A conferma di quello che dicevo all’inizio dell’intervista, la mia associazione, fondata nel 2001, non si occupa di persone con disabilità fisica o psichica, ma si occupa di altre situazioni, di privazioni dei diritti.
Dai migranti ai detenuti, dai minori stranieri ai pazienti psichici. Non c’è una ricetta, c’è una pulsione: dì il tuo diritto. Io direi proprio così: dillo. E siccome dirlo non è facile, e soprattutto non è facile farsi ascoltare una volta che l’hai detto, questo è il compito di un’associazione, di un attivista, di un movimento, ma anche di un sindacato, di un partito politico: dire il tuo bisogno di diritti. Una volta che hai deciso con tutta la forza, che hai fatto una scelta, che hai creato un’opportunità in cui dire, tutto ciò che viene dopo è l’azione collettiva e pubblica. È la politica. Fare in modo che quel diritto venga riconosciuto.Inclusione e giustizia sociale sono temi al centro del dibattito internazionale, ma spesso nella vita quotidiana sono ancora i pregiudizi a dominare la scena. Imparare a rispettare le differenze e le diversità di ognuno potrebbe favorire una visione meno limitata del mondo e migliorare il futuro per i nostri ragazzi?
Bisogna essere consapevoli che i diritti o la giustizia sociale non sono degli obiettivi messi lì, al termine di un percorso già tracciato, e che dunque fatti alcuni passi o molti passi verranno conquistati una volta per tutte.
Non è affatto così. I diritti, e tanto più la giustizia sociale come bene pubblico e collettivo, sono il risultato di una continua battaglia, di un movimento che non si interrompe, che va avanti, che prosegue e che conosce sconfitte, passi indietro, arretramenti. Bisogna intendere la vita individuale e sociale come una continua battaglia per l’affermazione di tali diritti.
Lei ha un nuovo libro in uscita “Poliziotto-Sessantotto” (scritto con Gaetano Lettieri, casa editrice Il Saggiatore). Ce ne vuole parlare? Cosa rappresenta la scrittura per lei?
Io ho scritto sempre moltissimo, sin dalla prima adolescenza. Poi è stata una vita movimentata, piena di cose, sono stato molto fortunato. Ho avuto molte esperienze, molti incontri, molte città, molte persone.
Con il passare del tempo sempre più ho sentito il bisogno di trascrivere tutto ciò, non come un diario individuale, ma come il racconto del processo sociale all’interno del quale ho avuto la fortuna di muovermi in questo oltre mezzo secolo di vita.