Rapito

Un film metafora dell’impotenza umana, della sua incapacità di cogliere l’essenza della vita e di agire al fine di modificarla secondo criteri di verità
Enzo Vignoli

«È un film, non è né un libro di storia o di filosofia, né una tesi ideologica». Così si è espresso Marco Bellocchio sul suo più recente film, presentato al festival di Cannes in questo 2023. Gli fa eco Fabrizio Gifuni, che in “Rapito” interpreta il ruolo dell’inquisitore Pier Gaetano Feletti: «È un cinema totalmente libero, che sceglie di raccontare la complessità dell'animo umano e dei personaggi. Una volta individuata la storia, Marco si concentra sui personaggi senza suggerire allo spettatore una lettura. Quindi la sensazione di spaesamento e di slittamento continuo dal punto di vista emotivo fa parte proprio di questa esperienza».

Se Bellocchio non intende suggerire alcuna chiave di lettura, la prima cosa che può venire alla mente è l’accostamento alla deontologia del giornalismo, che ritiene possibile l’enunciazione dei fatti disgiunta dalla loro interpretazione. Se un film non è né un’esegesi storica, né un trattato filosofico, allora, nel caso di “Rapito”, bisognerebbe capire quali possano essere gli intenti e i limiti con cui si scontra il regista.

L’unica possibile considerazione (non specifica, ma di carattere generale) a me pare quella di una totale impossibilità dell’essere umano di pervenire ad una condivisione dell’idea di libertà che lo possa accomunare e avvicinare a qualsiasi altro essere umano. La complessità e l’inestricabilità della vicenda storica di ogni essere vivente è così assoluta da impedire ogni accomodamento, ogni risoluzione che possa contemperare le ragioni non dico di tutti, ma “dell’altro”. La Storia, che esalta e detronizza il potere di tutti, a seconda delle forze prevalenti nelle varie epoche in cui si snoda la plurimillenaria vicenda dell’umanità, testimonia l’improbabilità che nel tempo possa prevalere una visione critica che veda “Il trionfo della verità”, a meno che per “verità” non s’intenda la prevaricazione del più forte. È la difficoltà di ogni giudizio critico il dato contro cui si va a sbattere, data l’incapacità dell’uomo di cogliere “l’altro” se non in modo soggettivo.

Così, il senso del titolo del film, partendo dal dato che vide, il 23 giugno 1858, il rapimento di Edgardo Mortara da parte dell’autorità vaticana, diventa metafora dell’impotenza umana, della sua incapacità di cogliere l’essenza della vita e di agire al fine di modificarla secondo criteri di “verità”.

Quest’avvenimento – rappresentato da Marco Bellocchio in modo drammatico, intenso, asciutto – non fu un caso isolato. Sono storicamente note vicende analoghe: bambini ebrei battezzati di nascosto da persone esterne alla propria famiglia perché creduti in pericolo di vita, e come tali destinati al Limbo, vennero ad essa sottratti per mano dell’autorità religiosa cattolica e educati secondo i suoi dettami.

Locandina del film "Rapito" di Marco BellocchioLa risonanza che l’azione papale ebbe all’estero, l’indomita volontà della famiglia Mortara di riavere con sé il bambino rubato, la rabbia popolare nei confronti del potere religioso, si saldano tutte, nel film, con le motivazioni politiche e con l’aspirazione al raggiungimento di una più completa unità nazionale e morale prima ancora che politica e territoriale, tanto che non appare inverosimile che nel film aleggi l’ipotesi di una stretta relazione fra il rapimento di Edgardo Mortara e la presa di Porta Pia nel 1870 una possibile concausa dell’ineluttabilità storica.

La scena simbolo più drammatica e dolorosa del film mi è parsa quella della morte della madre di Edgardo Mortara. Non c’è speranza, non c’è redenzione, non c’è la ricomposizione di un amore distrutto dalle fondamenta, destituito da ogni possibilità di sussistere. Mi sono chiesto se il rifiuto di abdicare alla propria libertà non sia stato fagocitato dall’alienante forza di un apparato religioso che cancella ogni traccia di umanità, di amore, di rispetto. E in quel vortice di orrore sono attratti sia Edgardo, sia la madre che non trovano la strada di alcuna riconciliazione, entrambi rapiti, divorati dal moloch disumano che è l’integralismo religioso. L’essere umano privato di ogni connotazione umana, della speranza della vita e dell’amore, dalla spinta di una forza che non consente tentennamenti e dubbi e al cui regno c’è chi si affida per non dover più temere la morte.

Un momento delle riprese del film "Rapito" di Marco Bellocchio - Piazza Maggiore, BolognaSu tutte, spicca la prova attoriale di Barbara Ronchi, che aveva già recitato sotto la direzione di Marco Bellocchio – sempre nel ruolo di madre - in Fai bei sogni (2016) e che è un volto noto al grande pubblico per la sua partecipazione ad una fortunata serie televisiva. Da segnalare la fugace apparizione di una Bologna ricostruita scenicamente ancora avvolta dalle mura cittadine. Monumento storico che resistette fino ai primi anni del Novecento, testimonianza residua di un mondo medievale le cui tracce si volevano cancellare per fare spazio alle moderne concezioni figlie delle esigenze economiche, quelle mura sembrano qui simboleggiare l’impossibilità di un qualsiasi pensiero liberatorio a scalfire il potere papale e, come tali, destinate a scomparire.

 

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