Le mura dell'edificio di via Castiglione che ospita da più di un secolo l'Istituto dei Ciechi Francesco Cavazza sanno intimidire chi vi entra per la prima volta. Si respira un'atmosfera un po' algida ed aulica, soprattutto in quei rari momenti in cui nei lunghi ed alti corridoi non vi è nessuno, a parte te. Molte ombre si allungano e ti accompagnano, in silenzio, mentre ci si addentra nei gangli vitali del palazzo.
Questa fu l'impressione iniziale, l'approccio sensoriale di chi, a poco più di vent'anni, vi fece il suo primo ingresso, nel 1996. Forse l'emozione, forse un attimo di distrazione, e la strada per accedere alla sala delle riunioni del comitato di redazione di Vedere Oltre fu presto smarrita. Bastò poco e mi ritrovai al primo piano, venendo improvvisamente investito dal vociare non proprio sommesso di un numero indistinto di giovani. Associai il vivace gorgoglio vocale a degli studenti e mi sorpresi a pensare come fosse strano che, in pieno pomeriggio, vi fosse chi si stesse impegnando sui banchi di una classe. Tale pensiero non fece in tempo a sfumare che un bagliore improvviso si fece largo nella penombra e la cancellò in un istante, fuggendo, inseguita dai corpi animati da quelle stesse voci che, ora, invadevano ogni lembo di spazio disponibile. Mi accorsi quasi per caso che si trattava di ragazzi non vedenti e mi stupii, scioccamente, rimanendo bloccato dal timore che sarei stato travolto dall'entusiasmo di quei ragazzi, e non solo in senso figurato. Non feci in tempo a pensare a quale espediente utilizzare per avvertirli della mia presenza che mi ritrovai di nuovo solo, nel corridoio, mentre le voci scivolavano con lo sciabordio dei passi giù per le scale, del tutto incuranti dell'ospite passeggero.
Fu in quello stesso momento che mi accorsi che qualcuno aveva assistito alla scena, dall'altra estremità del corridoio. Credetti di averla divertita, perché stava sorridendo. Ma mi sbagliavo: era Paola Rubbi, ed il sorriso era la firma dei suoi pensieri. Insieme raggiungemmo la sala all'ultimo piano e la mia prima riunione del comitato di redazione di Vedere Oltre ebbe inizio. Chi scrive non è un giornalista, nella vita si cimenta in altro tipo di scrittura; eppure Paola Rubbi era comunque un punto di riferimento, una presenza eterea che da sempre aveva accompagnato la mia esperienza di giovane fruitore del telegiornale regionale, ammantandola di connotati positivi. Ed ora, improvvisamente, vestiva i panni della mia direttrice, dispensando indicazioni operative e battute, con lo stesso piglio deciso ma cortese che avevo imparato ad apprezzare da mero spettatore e lettore. Ciò che andava fatto veniva fatto, ma recarsi alle riunioni del comitato di redazione significava soprattutto godere della personalità luminosa di Paola e dei mille rivoli di parole, aneddoti e suggerimenti che ne promanavano. Più volte si sono accese discussioni sulla legittimità e convenienza di determinate forme verbali o espressioni, mai fini a se stesse ma, piuttosto, legate a ragioni di ordine culturale e scelte di stile mai fuori dal tempo. Paola Rubbi era anche l'effige della bolognesità. Ne era testimone ed attrice al contempo. E da buona bolognese era qui ed ovunque, perché la casa è il luogo in cui è dolce tornare quando hai visto il mondo. Ed occuparsi degli altri può aiutare in primo luogo te stesso, informandoli o raccontando di loro a chi non li conosce.
Paola era la nostra direttrice d'orchestra, con quella bacchetta che lasciava scie di luce negli occhi di tutti noi intenti ad ascoltarla, che fossero racconti di mille momenti vissuti nelle trasferte romane o negli amati soggiorni appenninici, nelle redazioni di giornali e della RAI o sul campo. Capitava che il cellulare suonasse nel corso di una riunione del comitato di redazione ed il suo viso si increspava, attraversato da un'espressione mista di fastidio e raccapriccio, salvo poi tramutarsi in stupore allorquando le facevamo notare che si trattava del suo, abbandonato nel fondo della borsetta.Il suo rapporto con la tecnologia era ambivalente e spesso il modo più efficace di contattarla rimaneva quello di un messaggio affidato alla segreteria telefonica appoggiata nel salotto di casa. Come i classici che aveva amato nei suoi studi, era lieve ma ben ancorata nella realtà. Ora, Paola è come la carta stampata, parafrasando ciò che amava declamare nelle nostre riunioni: attuale come non mai.
É rimasta una sedia vuota, ma i suoi gesti, le sue parole, tutto ciò che di sé ci aveva donato, rimangono firme in calce ad una lettera che ci piace leggere e tenere con noi, al sicuro.