In onore dei cinquecento anni dalla morte di Raffello Sanzio, narriamo l’Estasi di Santa Cecilia, capolavoro dell’Urbinate, dipinto su tavola e trasportato su tela, la cui datazione risale al 1513 o 1514, anche se una rilettura dei documenti e delle fonti storiche conducono a una post-datazione riferibile al 1517 o 1518. L’opera, di grandi dimensioni, fin dal XVI secolo è stata oggetto di studio e di sterminata letteratura scientifica. La sua notorietà si deve tanto alla peculiarità iconografica, quanto alla qualità pittorica, frutto di una maturità artistica e di un sentimento classico, non algido, essenza della pittura raffaellesca. Per decifrare la concezione colta e moralizzata delle iconografie rinascimentali, serve maturare una sintesi di contenuti filosofici e religiosi perfettamente integrati, tesi a un insegnamento etico mai privato del rapporto dialettico tra misticismo della cultura medievale residua e ascesa del pensiero umanistico nelle Arti Liberali. La stessa estensione di senso della rappresentazione simbolica e iconoteologica della Santa Cecilia, vergine, martire, e patrona della musica celeste e terrestre, dovrebbe indurre a riflettere, interiorizzare e assimilare, l’idea di convivenza dei caratteri umani e sacrali insiti nella dottrina cristiana e nella pratica della sua stessa rappresentazione iconica. Il primo teorico che si pronuncia sull’opera è Giorgio Vasari, che nel 1550 precisa l’occasione della committenza, il ruolo del cardinale Lorenzo Pucci e la destinazione che conosciamo, presso la Cappella Duglioli-Bentivoglio della Chiesa di San Giovanni in Monte, a Bologna.
Egli nelle Vite distingue anche l’autografia, attribuendo l’esecuzione degli strumenti musicali a Giovanni da Udine il quale, per stile e fattura, “[...] fece il suo dipinto così simile a quello di Raffaello, che pare d’una medesima mano [...]”. Ancora Vasari narra il celebre episodio dello stupore atterrito, e la leggendaria “bella Morte” di Francesco Raibolini, detto il Francia, che per visione di tanta impareggiabile bellezza, al cospetto dell’opera, vide come fosse la tavola di Raffaello divina, e non dipinta ma viva, e talmente ben colorita da lui [...] laonde il Francia mezzo morto per il terrore e per la bellezza della pittura che era presente agl’occhi et a paragone di quelle che intorno di sua mano si vedevano […] entratosene fra pochi dì nel letto tutto fuori di se stesso, parendoli esser rimasto quasi nulla nell’arte appetto a quello che egli credeva e che egli era tenuto, di dolore e malinconia, come alcuni credono, si morì [...]“. La tavola di Raffaello è una metafora del rapporto con il Sacro: Cecilia si dona al suo Dio attraverso un rapporto privilegiato e interiore con l’armonia mundi. Sullo sfondo di dense nubi ella, al centro della composizione, si abbandona alla contemplazione del coro celestiale che si affaccia da uno squarcio di luce, intonando l’armonia delle sfere. Il suo sguardo, volto al cielo, ci distoglie dalla dimensione terrena ove sono immersi i quattro Santi identificabili con Paolo e Giovanni Evangelista, posti alla destra di Cecilia, e Agostino e Maddalena, posti alla sua sinistra.
I Santi non partecipano all’estasi della vergine martire poiché non possono vedere, né udire, ciò che è percepito solo da Cecilia. Sembra quasi che la Santa faccia scivolare dalle mani l’organo portativo, le cui canne, rovesciate, in parte si staccano dal somiere. L’organo, divenuto suo attributo per una singolare interpretazione della Passio Sanctae Caeciliae, appare silente tra le mani dalla fanciulla, protesa verso l’intimo ascolto delle polifonie metafisiche. Ai piedi di Cecilia giacciono strumenti musicali simbolicamente infranti, e quindi inutilizzabili. Essi rappresentano la finitezza della musica terrena rispetto a quella divina. Una viola da gamba ha le corde spezzate, così come spezzati appaiono i flauti sparsi al suolo, fra un triangolo e una sonagliera. Infine un tamburello, dei cimbali e alcuni timpani dalle membrane rotte evocano le sonorità della gloria e le ingannevoli seduzioni mondane. Se da un punto di vista della decifrazione iconografica la scelta degli strumenti domina l’opera, da un punto di vista iconologico, quindi di estensione di senso dell’iconografia, è proprio l’afflato mistico coniugato alla solennità raffaellesca, mutuata dalla grandezza dei modelli classici, a rendere inequivocabile il messaggio dottrinale di questo dipinto e farne al tempo stesso fonte di inesauribile incanto. L’Estasi di Santa Cecilia è anche simbolo di una incessante tensione dell’umano verso un altrove inattingibile, e di una solitudine che avvicina al sovrannaturale mediante congedo dal mondano.
San Paolo, nella solida postura della figura ritratta di tre quarti, medita sull’armonia spezzata, quindi sulla vanitas e dunque sulla fragilità delle umane cose. San Giovanni evangelista, dai tratti tradizionalmente efebici e delicati, porta la mano sinistra al cuore e con il capo reclinato si affianca a Cecilia. Sant’Agostino, rivolto verso Giovanni, viene rappresentato di profilo, vigile ed austera presenza, mentre Maddalena, con lo sguardo orientato verso l’osservatore, sembra accogliere il fedele entro la scena per guidarlo in un percorso di lettura e comprensione teologica. Presso la Pinacoteca Nazionale di Bologna, dove il capolavoro è custodito ed esposto, attraverso i corsi di formazione organizzati dal Museo tattile Anteros, è dato conoscere disegni a rilievo dedicati alle persone minorate della vista, per rendere leggibile, al tatto, questa celebre composizione pittorica. Con il supporto di esperienze propriocettive e cinestesiche, inoltre, nasce spontaneamente la visione di un tableau vivant.