Riuscire ad avere la meglio su tutto e su tutti, senza tradire le persone e rispettandone i sentimenti
Il film d'apertura della Festa del Cinema di Roma 2022, diretto da Francesca Archibugi e tratto dall'omonimo romanzo di Sandro Veronesi, vincitore del Premio Strega 2020, è sicuramente di grande impatto emotivo e di notevole impegno estetico.
La sua complessità è, però, seconda al suo scorrere in maniera intricata. Il pubblico si trova a dover dipanare una matassa temporale che si avvita continuamente su sé stessa, con qualche difficoltà a discernerne i piani, la fitta rete dei rapporti interpersonali e degli avvenimenti, la spesso oscura “ragione” dei sentimenti.
Marco Carrera è Pier Francesco Favino. Non è solo l'attestazione dell'accoppiata protagonista/attore. Si assiste ad una fusione che va oltre la frequente capacità d'immedesimazione in un personaggio. Lo stesso Favino, in un'intervista visibile in rete, ha detto che da bambino lo chiamavano con il nome di un uccello, “picchio”. Probabilmente non solo un caso, ma una vera e propria consonanza, un'identità che l'attore ha potuto rendere con naturalezza, come se fosse stato chiamato a interpretare se stesso.
E qui entra in gioco, a mio parere, una seconda discrepanza che si oppone alla completa riuscita del film. O, forse, riesce a rendere la vicenda ancora più problematica. Mi riferisco alla prova di Nanni Moretti, che interpreta il ruolo dello psicanalista Daniele Carradori. Mi riesce difficile entrare in sintonia con l'espressività vocale dell'attore. Più che in modo impersonale, le parole escono dalla sua bocca con tono fra lo ieratico e il pedante. La sua voce risuona innaturale, artificiosa, stiracchiata, goffa, priva di quell'empatia che pure il suo sguardo dimostra. Come ci sono persone non fotogeniche, così, forse, ce ne sono di incapaci – magari per pudore - di esternare la propria emozionalità interiore per mezzo della voce e Nanni Moretti mi sembra una di quelle. Il personaggio da lui interpretato aderisce pienamente e correttamente alla vicenda esistenziale del protagonista, è con lui e per lui, ma la sua voce sembra contraddirlo, si ritrae, va altrove. A meno che quanto appena scritto non aderisca al personaggio letterario di Daniele Carradori, che non conosco non avendo letto il romanzo.
Marco Carrera è il colibrì. Il nomignolo gli appartiene da quando, bambino, era piccolo, minuto e sembrava non dovesse crescere mai. Un termine affettuoso e protettivo che ha il suo equivalente in un altro, forse di uso più frequente: scricciolo. Quel termine gli rimane attaccato addosso in maniera implicita. Tutta l'esistenza del protagonista ne comprova l'idoneità. È difficile sintetizzare quanto avviene sullo schermo. Marco Carrera percorre e ripercorre in ogni istante gli episodi della sua vita, in un andirivieni spasmodico in cui risulta problematico capire se e quando ci sia un qui e ora in cui il suo errare si arresti. Chissà, forse questa è la vita di tanti, se non di tutti, ma tale constatazione non riesce ad agevolare il compito di chi guarda. È l'esistenza degli altri – di un altro – che scorre sullo schermo e quel meccanismo pur condiviso non basta ad agevolare il compito dello spettatore, che corre il rischio di doversi arrendere all'impossibilità di capire. Questo, almeno, fino alla scena finale, alla fine, appunto, quando ormai i ricordi del protagonista sono privi di ogni prospettiva futura. È arrivato alla fine e può dunque riposarsi, cessare di rivivere incessantemente la sua esistenza. Ci si sente subito solidali con questa persona estranea, che fatica a vivere secondo gli schemi contemporanei, pieni di soprusi, di prevaricazioni, d'inganni, di tradimenti, di luoghi comuni, di priorità che non capisce e non condivide. La sua vita scorre fra avvenimenti luttuosi che la segnano per sempre, fra incontri delicati i cui effetti si protrarranno fino alla fine, fra avvenimenti evitati per un nonnulla e fra concatenazioni impossibili da prevedere. Il colibrì riesce ad avere la meglio su tutto e su tutti, senza tradire le persone e rispettandone i sentimenti. Però, le une, magari non volendolo, a volte finiscono col sopraffarlo, mentre quella sua immobilità interiore sembra andare a scapito dei propri sentimenti, da lui forse non vissuti pienamente, almeno se analizzati da un occhio esterno. Circondato da chi (non) ha amato, da chi (non) ha odiato, dagli affetti più veri, come da quelli più oscuri, Marco Carrera chiude la sua esistenza in pace con sé stesso, con serenità, aiutato da chi riesce ad assecondare il suo ultimo percorso.
Altri personaggi di rilievo sono interpretati da Laura Morante (la madre), Kasia Smutniak (la moglie), Bérénice Bejo (l'amore mai compiuto della sua vita). Infine si segnala l'importanza di una solida sceneggiatura e di un montaggio problematico ma riuscito.