La favola di Amore e Psiche era già nota agli antichi, tanto che i primi accenni a questo mito si trovano in Meleagro, mentre il racconto più completo ci è giunto attraverso i libri IV e VI delle Metamorfosi o L’asino d’oro di Apuleio, opera latina composta da undici libri e realizzata nel II secolo d.C. Ma Psiche, quale personificazione dell’anima umana, nella mitologia compare solo in età tarda. Il mito venne poi reinterpretato in senso neoplatonico e successivamente in chiave cristiana, con riferimento al tema dell’immortalità dell’anima.
L’episodio più descritto rappresenta il momento in cui Psiche, istigata dalle sorelle invidiose, decide di scoprire il vero volto di Amore, sfidando la sua volontà di restare celato. Psiche e Amore, spesso rappresentati come due giovinetti alati, sono anche i protagonisti di un mito legato ai riti iniziatici e all’accesso al mondo degli Inferi. Nel racconto di Apuleio Psiche è figlia di un Re e fanciulla di straordinaria bellezza che scatena la gelosia di Venere, madre di Amore, la quale ordina al figlio di suscitare in lei la passione per un essere umano spregevole. Ma il Dio si innamora perdutamente della fanciulla, ignara del maligno disegno di Venere, e venendo meno al suo incarico, per difenderla e amarla la fa condurre in un palazzo protetto e meraviglioso ove egli può recarsi ogni notte a farle visita senza mai svelarsi, congedandosi dal talamo alle prime luci del giorno. Amore pone una sola condizione a Psiche: non voler scoprire la sua effettiva identità, pena l’abbandono. Una notte però Psiche, spinta dalle sorelle a non fidarsi delle parole di Amore e convinta che egli possa essere un drago evocato dall’oracolo di Apollo, in attesa di un figlio e turbata dal divieto assoluto di guardare il compagno notturno, decide di avvicinarsi di nascosto a lui per vederne il vero volto.
Quindi, armata di coltello e munita di una lampada ad olio, tenta di far luce per svelare il mistero che avvolge la natura di Amore. Inavvertitamente una goccia di olio cola dalla lucerna, cadendo sulla spalla del Dio, il quale si desta all’improvviso e, deluso, abbandona la fanciulla. Nella disperata ricerca del perduto Amore Psiche giunge al Palazzo di Venere ove la dea, mossa dall’ira, la sottopone a numerose prove che la giovane riesce però a superare. Intanto Amore, colto da inconsolabile nostalgia, si pone alla ricerca dell’amata e, trovatala, decide di non abbandonarla più, chiedendo a Giove il permesso di sposarla. Giove lo accorda e ordina a Mercurio, dio delle trasmutazioni e messaggero degli dei, di condurre Psiche sull’Olimpo, ove le sarà conferito l’attributo dell’immortalità.
La storia di Amore e Psiche affascinò la cultura rinascimentale, che in essa vide la metafora del lungo e non lineare percorso conoscitivo che conduce l’anima all’incontro con il bello e il buono mediante Amore e quindi attraverso esperienza, sacrilegio e destino, perdita e redenzione. Benché il mito ci sia noto solo da fonti letterarie relativamente tarde, che non risalgono oltre l’età ellenistica, è probabile che esso rifletta contenuti religiosi di origine molto più antica: in questo senso sono stati interpretati soprattutto gli aspetti oscuri dell’amore tra i due protagonisti, la segregazione di Psiche, il divieto di vedere la bellezza di Amore (Eros), le prove cui Psiche è sottoposta da Afrodite. Riti iniziatici e riferimenti al mondo ctonio sono qui adombrati sotto la veste letteraria del mito. In molti palazzi nobiliari cinquecenteschi la favola venne narrata attraverso decorazioni la cui natura mitografica, corrispondente al testo classico, resta comunque aperta a molteplici interpretazioni. Palazzo Te, a Mantova, documenta una delle versioni più interessanti di questo mito e da ormai dieci anni si avvale di un percorso accessibile, dedicato a persone non vedenti e ipovedenti, curato dal Museo tattile dell’Istituto dei Ciechi F. Cavazza, volto a rendere tangibili numerose mitografie, volute per questa dimora, nel XVI secolo, da Federico II Gonzaga. Infine: indicibile e ineguagliabile, per lirica bellezza, resta la versione scultorea che della scena della ricongiunzione di Amore e Psiche ci offre, in età neoclassica, ma con spirito preromantico, Antonio Canova.