La mostra Gutta Cavat Lapidem, si inserisce nel novero delle iniziative per celebrare i 150 anni di quella scoperta che condusse alla nascita della speleologia bolognese. Nei primi giorni dell’ottobre 1871, si tenne a Bologna il “V Congresso Internazionale di Antropologia e Archeologia preistoriche”. Per la città fu un evento emblematico e prestigioso poiché contribuì, assieme ad altre iniziative degli anni successivi, a riaffermare il ruolo di Bologna come importante centro culturale. In quell’occasione venne infatti realizzata una prima installazione museale che precede di dieci anni l’apertura del museo archeologico. Ospitata in un’ala della Biblioteca dell’Archiginnasio, vi erano stati esposti una parte della collezione di Pelagio Palagi, da poco lasciata al Comune, e i corredi del sepolcreto della Certosa, il cui scavo era ancora in corso.
Dieci anni dopo si inaugurerà il Museo Archeologico di Bologna e nello stesso anno un gruppo di giovani appartenenti alla nobiltà cittadina fonderà l’Istituto dei Ciechi Francesco Cavazza.
Centocinquanta anni dopo, si rinnova l’incontro tra la scienza e la cultura bolognese per raccontare l’esperienza speleologica all’interno delle sale che espongono le collezioni di Geologia del "Museo Giovanni Capellini”. L’iniziativa della mostra è di Michele Sivelli della Società Speleologica Italiana che sin dal principio ha manifestato il desiderio che la mostra avesse una forte componente sensoriale. Per questo motivo si è presentato all’Atelier Tolomeo per progettare un’esperienza accessibile e inclusiva, con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna e il sostegno dello SMA, il Sistema Museale di Ateneo. La speleologia ha una natura fortemente tattile perché il nostro pianeta ha una natura tattile: si è modificato per contatto, attraverso lo scorrimento di liquidi e gas su corpi materiali. È importante far comprendere che la forma della nostra terra si è modificata, perché si è corrosa, spaccata, consumata, frammentata. Fenomeni e parole che hanno una impronta tattile oltre che visiva.
Tra noi e il mondo che ci circonda lo scambio è continuo ed è fatto di movimenti e adattamenti del corpo.
Saliamo, scendiamo ci pieghiamo. Come quando si scende in una grotta. Per il cieco totale l’attraversamento della città è più pieno di imprevisti di una grotta.
La grotta sostiene, circonda, guida, abbraccia e chiede di essere abbracciata. La città invece è priva di appoggi sicuri, è priva di un’impronta e spesso le “impronte” che offre riguardano lo scorrimento e lo stazionamento delle automobili e non hanno nulla a che fare con l’organicità dei corpi.
Ma non basta parlarne, occorre mostrarlo e leggerlo con il corpo. I racconti verbali non sono sufficienti, perché ostinatamente ci dimentichiamo che per abitare questo mondo, e quindi poterlo pensare e descrivere ne dobbiamo fare esperienza. Non esiste verbalizzazione senza esperienza. Si trasmette l’esperienza attraverso il racconto per rendere partecipi gli altri a una esperienza e non al solo dato rilevato.
L’esposizione, che prevede installazioni immersive come la ricostruzione di un tratto della grotta della Spipola, offre la possibilità di rendere piena l’esperienza sensoriale e cognitiva. Fare prova dell’attraversamento di una grotta, la Spipola 2, serve per togliere dal verbalismo l’esperienza e permette di costruire un proprio racconto originale e farsene un’idea concreta.
Il nostro compito quindi è rendere concreta un’esperienza attraverso l’empatia per le cose che riguardano la nostra terra, e il modo in cui queste sono messe le une accanto alle altre. Esporre un pensiero e allo stesso tempo un paesaggio della geologia nel suo dettaglio.