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Le parole del silenzio

Ascoltare la vita nella testimonianza di Wolfgang Fasser
Silvia Colombini

Wolfgang Fasser ha attraversato tante esperienze. Cieco a seguito di una malattia ereditaria, è musicista e fisioterapista. Ha fondato a Quorle, nell’Appennino Toscano, un centro di terapia sonora per bambini con handicap, e la casa della Fraternità cristiana di Romena, movimento laico cattolico italiano. Trascorre alcuni mesi dell’anno in Lesotho, nell’Africa del Sud, dove lavora in ospedale come fisioterapista. È un sassofonista specializzato in musica ebraico orientale Klezmer. È protagonista di documentari premiati come “Nel giardino dei suoni’’ del regista Nicola Bellucci. Ed è anche uno scrittore de “Il custode del silenzio’’ (Casa Editrice Chiarelettere scritto con Silvia Pettiti) .

 

Cosa ci può insegnare l’esperienza del silenzio?

 

Il silenzio non insegna, ma è una condizione che mi permette di scoprire e riscoprire. Scoprire, per esempio, la vita con i sensi, il tempo dilatato e il vuoto sano. Nell’esperienza del silenzio troviamo anche noi stessi, cioè scopriamo come conduciamo la nostra vita interiore ed esteriore. C’è il silenzio per le orecchie, ma anche quello per gli occhi e per le mani operose e c’è il silenzio per le nostre abitudini di tutti i giorni. In questi silenzi più profondi troviamo un invito prezioso: l’invito per un cammino di liberazione. Liberarsi dal superfluo nel quale abbiamo creduto e liberarsi dai condizionamenti negativi. Già questo apre uno spazio dal quale la vita può entrare. E non finisce qui: c’è l’invito a liberarsi da se stesso. Liberarsi da tutto quello che si potrebbe definire “io sono’’, ” io voglio’’. Tutte le non libertà che nascono da uno sviluppo egocentrico-egoistico e intasano la nostra vita. Questo cammino ci porta a liberarci per accogliere l’esistenza, l’infinito e il divino.

 

Non vedere, vivere senza guardare l’esteriorità può favorire un contatto più intimo con sé stessi e con gli altri?

 

Durante un dialogo profondo con Silvia Pettiti, abbiamo esplorato questo tema. Nel nostro libro ”Il custode del silenzio’’ questo tema ha trovato il titolo: ”Il sipario verso l’esteriorità’’. Vivere l’esperienza del non vedente senz’altro non è una garanzia per una vita in cui i sensi siano più sviluppati e ci sia una maggiore profondità spirituale. Ma anche essere vedente non è automaticamente un limite alla crescita spirituale. Saper vivere con profondità, senza scindere la vita spirituale dalla vita di tutti i giorni permette a tutti noi di crescere in quel senso ed è una buona base per entrambe le situazioni.

Copertina del libro "Il custode del silenzio" di Wolfang Fasser con Silvia Pettiti - Casa Editrice Chiarelettere

Cosa l’ha spinta a raccontarsi nel libro?

 

Maurizio Donati, a mia insaputa, ha osservato il frutto della mia opera per anni e mi ha contattato per scrivere un libro che fosse la risposta alla domanda: ”A quali sorgenti attingo per essere così come sono?”. Nella persona di Silvia Pettiti, autrice di vari scritti e biografa di Arturo Paoli, ho trovato una preziosa interlocutrice.

 

Nella nostra società chi è diverso viene discriminato. Come facciamo a silenziare questo atteggiamento?

 

Creare comunità attraverso l’incontro con gli altri, imparare ad accogliere l’altro come è, cioè nella sua diversità per intraprendere insieme un dialogo che porti al bene comune e partecipare davvero tutti per migliorare la qualità della vita di ognuno di noi nella nostra società. Non credo nell’assistenzialismo fine a sé stesso, ma so che la possibilità di partecipare alla vita sociale ci permette di dare un senso alla nostra vita e un valido contributo alla vita degli altri.

 

Lei coniuga il piacere del silenzio e della solitudine con quello del suono musicale e della vicinanza agli altri. Come si fa a unire questi due aspetti?

 

Bisogna non separare questi due aspetti, ma dare loro spazio. C’è il tempo da dedicare alla vita interiore e il tempo da donare alla vita pragmatica di tutti i giorni. La spiritualità non è un hobby e la vita di tutti i giorni non è una faccenda molesta: sono dimensioni del mio essere, come fossero stanze che vogliono essere abitate.

 

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