Credo che ci siano testimonianze nell’arte in grado di offrire esempi di forza nel rovesciare situazioni ed eventi drammatici se non tragici. Il rovesciamento avviene attraverso il passaggio da uno stato di dolore paralizzante a una vera e propria emersione creativa che recupera la propria esistenza nelle sue possibili potenzialità. Ci insegnano, cioè ci segnano dentro, queste resurrezioni da cui prendere energia sollecitando i nostri neuroni a specchio e il nostro cuore. Carlo Levi (Torino, 29 novembre 1902 – Roma, 4 gennaio 1975) è stato uno dei grandi maestri del ‘900, limpido e appassionato pensatore, scrittore, pittore, antifascista, noto soprattutto per il romanzo Cristo si è fermato a Eboli, autorevole voce della questione meridionale nel secondo dopoguerra. Medico, preferirà alla professione, grazie anche all’incontro con Felice Casorati, la via dell’arte, ottenendo fin da subito rilevanti risultati. Nel marzo 1934, Levi viene arrestato per sospetta attività antifascista. Il 15 maggio 1935, nel suo secondo arresto, è condannato al confino nel paese lucano di Grassano. Successivamente, viene trasferito nel piccolo centro di Aliano, in provincia di Matera. Lo segue la cugina Paola Levi, sorella della scrittrice Natalia Ginzburg. Da questa esperienza nasce il suo romanzo più famoso, Cristo si è fermato a Eboli. Proprio ad Aliano, volle essere sepolto. Linuccia Saba, sua compagna e figlia del poeta, ricorda come Carlo, una notte, camminando, ebbe l’impressione che si fosse messo a nevicare. Ma non nevicava, erano i suoi occhi a vedere neve dove neve non c’era. Fu operato per distacco della retina. Convalescente, ricominciò subito a disegnare, alla cieca o nel poco che riusciva a vedere attraverso un piccolo binocolo (“occhialino” lo chiamava). Dapprima scarabocchiava autoritratti con la biro o a matita, usando pennarelli colorati con esplosioni di viola, di arancio, di giallo, di blu. Quando un suo allievo gli fece costruire due telai speciali, uno per dipingere e uno attraversato da cordicelle metalliche formanti riquadri per guidare la sua mano, in modo che infilando dietro un foglio, poteva servirsi della guida dei fili per scrivere o disegnare negli spazi. Levi riesce a comporre quel capolavoro pubblicato postumo che è Quaderno a cancelli il cui titolo è tratto da una poesia del suo carissimo amico morto troppo presto, Rocco Scotellaro, dedicata a una bambina dal quaderno scolastico a quadretti grandi, necessario per imparare a scrivere. Nell’opera, Levi, ripercorre i cardini fondamentali della sua vita. La sua mancanza di vista, in realtà suscita una forza interiore di precisione emotiva e introspettiva. Non è difficile reperire Quaderno a cancelli. Rarissimo, invece, è trovare un catalogo che offra la documentazione pittorica creata in questo periodo.
Sono stata fortunata a riceverlo casualmente in dono in uno dei miei soggiorni nell’amata Lucania. Si tratta di un’opera edita addirittura nel 2002 da Spes Milazzo, a cura di Donato Sperduto con prefazione di Giovanni Russo. 40 disegni tra i 145 si dispongono al nostro incontro con espressività originale, diversità di tecniche, a penna a sfera blu o verde, lapis, pastelli e feltri colorati. 21 disegni sono senza data. Alcuni risalgono molto probabilmente tra il febbraio e il marzo del 1973. Pablo Neruda racconta così il ritratto fatto da Levi in queste condizioni: “Mentre mi ritraeva nell’antico studio, il crepuscolo romano discendeva lentamente, i colori si attenuavano come se il tempo impaziente rapidamente li consumasse; si udivano i clacson delle automobili che correvano verso le strade della campagna, verso il silenzio verso la notte stellata. Sprofondai nell’oscurità, ma egli continuava a dipingermi. Il silenzio finì per divorarmi, però egli seguitava forse a dipingere il mio scheletro. Perché i casi erano due: o le mie ossa erano fosforescenti, o Carlo Levi era un gufo, aveva gli occhi scrutatori dell’uccello della notte.”